L’ALTA QUOTA E GLI EFFETTI SULL’ORGANISMO
(Dr. Luigi Vanoni – Commissione Centrale Medica del Club Alpino Italiano)
Negli ultimi anni un considerevole numero di persone (escursionisti, trekkers, alpinisti, lavoratori) normalmente residenti a quote prossime al livello del mare, si reca ad altitudini superiori ai 4000 metri s.l.m. Diversi di questi soggetti sono alla loro prima esperienza in quota e ben poco conoscono circa le possibili reazioni del loro organismo quando esso verrà sottoposto ad uno sforzo in ambiente ipobarico/ipossico. Alla riduzione della pressione barometrica si associa, infatti, una riduzione della pressione parziale di ossigeno; sul Monte Bianco (4.807 metri) la pressione parziale di ossigeno risulta essere diminuita del 50% rispetto a quella presente a livello del mare e in cima al Monte Everest (8.848 metri) ridotta ad un terzo. Con l’esposizione a quote via via crescenti, la progressiva riduzione della pressione atmosferica e quindi della pressione parziale di ossigeno, fanno sì che una serie di meccanismi compensatori vengano messi in atto dall’organismo per adattarsi alla conseguente ipossia tissutale; tale processo prende il nome di acclimatazione. Ciò nonostante, l’’assenza di acclimatamento e la presenza di alcuni fattori di rischio, possono favorire l’insorgenza di malattia acuta di montagna (AMS, acute mountain sickness) e/o una delle sue due temibili complicanze, l’edema polmonare d’alta quota (HAPE, high altitude pulmonary edema) e l’edema cerebrale d’alta quota (HACE, high altitude cerebral edema). Tra gli elementi importanti identificati quali fattori di rischio per lo sviluppo del male acuto di montagna, vi sono l’elevata velocità di ascesa nel periodo di acclimatazione, anamnesi positiva per AMS, HAPE o HACE, anamnesi positiva per emicrania, obesità e – nello specifico dell’HAPE – la persistenza del forame ovale. Affrontare un ambiente ostile quale è quello ipossico/ipobarico dell’alta quota, richiede obbligatoriamente la conoscenza sia dei meccanismi coinvolti nei processi di acclimatamento, nonché delle caratteristiche individuali che possono favorire o meno l’acclimatamento stesso. Poter riconoscere le caratteristiche individuali, permetterà di impostare al meglio la preparazione e la fase di acclimatazione, con idonei profili di ascesa e approcci altimetrici consoni, nonché – nei casi indicati – suggerire un’eventuale profilassi farmacologica e uno stretto controllo dei parametri relativi al trasporto di ossigeno. Tra i vari parametri fisiologici, la saturazione di ossigeno e le risposte ventilatoria e cardiaca all’ipossia, rivestono un ruolo di fondamentale importanza per la determinazione del fattore di rischio in ambiente ipossico. Le classificazioni di quota, formulate nel corso degli anni, sono state diverse, la seguente è quella di Bartsch del 2008:
LIVELLO DEL MARE 0-500 metri s.l.m.
BASSA QUOTA 500-2000 metri s.l.m.
MEDIA QUOTA 2000-3000 metri s.l.m.
ALTA QUOTA 3000-5500 metri s.l.m.
QUOTA ESTREMA > 5500 metri s.l.m.
Al progressivo aumentare della quota, si verifica una diminuzione della pressione parziale di ossigeno (ipossia) che si accompagna ad una consensuale riduzione della pressione barometrica (ipobaria): l’ipobaria è conseguenza della riduzione della pressione esercitata sul punto di misura dalla colonna di aria sovrastante; con l’aumentare dell’altitudine si verifica una riduzione della colonna d’aria e della pressione esercitata al suolo dalla stessa. A livello del mare la pressione barometrica equivale a 760 mmHg e l’ossigeno, occupandone circa il 21% (20,93%), esercita una pressione di 159,2 mmHg (PO2 = P atmosferica x %O2 = 760 x 20,93%). A 3000 metri di quota la pressione barometrica risulta essere di 526,3 mmHg e di conseguenza la pressione parziale di ossigeno – il quale occupa sempre il 21% del totale – è di 110,2 mmHg. A 5000 metri i valori di pressione atmosferica e di pressione parziale di ossigeno, sono rispettivamente: 405 e 84,9 mmHg. In vetta al Monte Everest la pressione atmosferica è di 236,3 mmHg con una pressione parziale di ossigeno pari a 49,5 mmHg. Alla ridotta pressione parziale di ossigeno inspirato consegue sia la riduzione della pressione alveolare di ossigeno, nonché della disponibilità di ossigeno a livello tissutale.
L’importanza della quota nel processo di adattamento fisiologico è legata alle risposte indotte dall’ipossia ipobarica:
• fino a 500 metri, le variabili atmosferiche si modificano molto poco, tanto da non richiedere alcuna compensazione fisiologica e di conseguenza non influiscono sulle prestazioni fisiche del soggetto;
• a quote tra i 500 m. e i 2000 m. le componenti atmosferiche si fanno più marcate a tal punto da iniziare a manifestarsi la compensazione messa in atto dall’organismo. Tutto è, però, ancora ad intensità bassa, tanto da non essere percepito alcun disagio dalla maggioranza delle persone;
• tra i 2000 e i 3000 metri di quota, le modifiche dell’ambiente sono più evidenti e di conseguenza anche gli adattamenti dello stesso organismo; a queste quote possono riscontrarsi sintomi attribuibili al male di montagna;
• tra i 3000 m. e i 5500 m. molti soggetti senza acclimatamento, possono riscontrare il male acuto di montagna; al di sopra dei 5500 metri (altitudine oltre la quale non esistono stabili insediamenti umani) è possibile permanere solo per brevi periodi di tempo.
La ridotta pressione parziale di ossigeno dell’alta quota, induce l’organismo al tentativo di mettere in atto tutta una serie di compensi che, in relazione alla velocità di instaurazione, possono essere distinti in “aggiustamenti”, più rapidi a manifestarsi ed in “adattamenti”, i quali sopraggiungono in tempi più lunghi. Lo stimolo adattativo è dato dall’entità dell’ipossia – quindi dalla quota stessa – nonché dalla durata di permanenza in quota: gli adattamenti “guadagnati” ad una determinata quota, sono necessari per permettere ulteriori aggiustamenti ed adattamenti a quote superiori. Esporsi rapidamente a quote superiori a 2000 metri, induce l’organismo a rapide modificazioni funzionali, allo scopo di fronteggiare l’ipossia tessutale: l’aumento della ventilazione – incremento della frequenza respiratoria e della profondità del respiro – e le modifiche al circolo polmonare – vasocostrizione polmonare ipossica – si accompagnano ad incremento della gittata cardiaca consequenziale all’aumentata frequenza cardiaca. Tali aggiustamenti, se da un lato permettono di ridurre – in tempi brevi (ore/giorni) – almeno parzialmente gli effetti negativi dell’ipossia – dall’altro lato spesso non sono sufficienti per fornire ossigeno in proporzioni adeguate alla permanenza in quota ed all’attività sportiva e/o lavorativa svolta in quota. Pertanto altre modifiche anatomo/funzionali devono necessariamente instaurarsi onde poter meglio tollerare la ridotta pressione parziale di ossigeno. A differenza degli aggiustamenti – caratterizzati soprattutto da modifiche funzionali – gli adattamenti, oltre a richiedere tempi maggiori per la loro realizzazione, si focalizzano sia su modifiche strutturali oltre che funzionali. L’ipossia tessutale stimola la produzione di globuli rossi, mediante aumento del rilascio di eritropoietina da parte del rene. L’aumento della sintesi di eritropoietina avviene entro circa 15 ore dall’esposizione all’ipossia, ma occorrono almeno due settimane perché si possa notare un incremento della produzione di emazie. Una volta raggiunto il grado di policitemia indotto dai processi sopra descritti, essa si mantiene per tutto il tempo di permanenza in quota e ritorna ai livelli basali circa due-quattro settimane dopo essere ritornati a livello del mare.
Quando l’organismo non è in grado di adattarsi sufficientemente alla quota, si possono sviluppare patologie.
Le principali patologie da ipossia che possono colpire chi si reca in alta quota sono il Male di Montagna Acuto o Acute Mountain Sickness (AMS), l’Edema Cerebrale d’Alta Quota o High Altitude Cerebral Edema (HACE) e l’Edema Polmonare d’Alta Quota o High Altitude Pulmonary Edema (HAPE). Queste ultime possono raggiungere una gravità tale da essere in grado di portare a morte il soggetto.
Acute Mountain Sickness
Il male di montagna acuto è una condizione molto frequente.
FREQUENZA DEL MAL DI MONTAGNA ACUTO A QUOTE DIVERSE
2500 – 3000 metri 10 – 30%
3000 – 4000 metri 30 – 40%
4000 – 4500 metri 40 – 60%
tratto da “Medicina e Salute in Montagna”-Annalisa Cogo – Editore Ulrico Hoepli – Milano – 2009 – pag. 47
Esso si può presentare sopra i 2500 metri (ma può sopraggiungere anche a ridosso dei 2000 metri di altitudine), in soggetti non acclimatati, che hanno raggiunto la quota troppo rapidamente. Gli elementi importanti per lo sviluppo o meno di tale condizione, sono l’assenza di acclimatamento, la rapida ascesa, sforzi intensi e un’eventuale predisposizione individuale. Dal 1991, grazie al Lake Louise Consensus Group, l’AMS viene definito dalla presenza di cefalea, più almeno uno dei seguenti sintomi:
• disturbi gastro-intestinali (nausea, vomito, anoressia, ecc.);
• astenia/affaticamento eccessivo;
• vertigini/sensazione di testa leggera;
• disturbi del sonno;
Ogni sintomo è indicato con un livello di intensità da 1 a 3, dove tre è l’intensità maggiore. Per la diagnosi di male di montagna acuto, alla descrizione soggettiva dei sintomi – sopra riportata – segue la parte obiettiva, caratterizzata dalla valutazione, da parte del medico, della funzione mentale, della presenza o meno di atassia, della presenza o meno di edemi periferici ed infine dalla valutazione funzionale.
La diagnosi di mal di montagna acuto è data dal raggiungimento – tramite la sola parte autovalutativa oppure dalla somma dei punteggi tra le due parti (autovalutativa e clinica) – di un valore pari o superiore a tre.
L’approccio terapeutico per l’AMS è innanzitutto comportamentale e sintomatico:
• non salire ulteriormente (soggiornare uno o più giorni alla quota raggiunta è generalmente sufficiente; nei casi con maggiore intensità dei sintomi può essere utile scendere a quote inferiori);
• eventualmente farmaci – su prescrizione e controllo medico – sia per la gestione che per l’eventuale persistenza dei sintomi più disturbanti;
• alla ripresa della salita assicurarsi di evitare sforzi eccessivi ed inutili, e di non superare i 300-400 metri di dislivello altimetrico al giorno;
• idratarsi adeguatamente;
• in casi estremi e quando la discesa non è possibile si può ricorrere al sacco iperbarico, che permette in tempi rapidi di “portare” il soggetto ad una quota più bassa, tramite l’aumento, ottenuto mediante una pompa, della pressione atmosferica presente nel sacco – dove è posizionato il Paziente – così da ridurre artificialmente l’ipobaria e di conseguenza l’ipossia.
I soggetti suscettibili di sviluppare AMS devono porre particolare attenzione sia all’acclimatamento realizzato attraverso un approccio graduale alla quota delle settimane/mesi precedenti, sia al rispettare il massimo dislivello quotidiano consigliato (300-400 metri), nonché all’idratarsi correttamente ed eventualmente all’adottare la profilassi farmacologica dietro prescrizione e controllo medico.
High Altitude Cerebral Edema
Un’evoluzione sfavorevole del mal di montagna acuto è l’edema cerebrale d’alta quota (HACE); esso, però, potendosi sviluppare anche in assenza di AMS, è considerato un’entità patologica a sé stante. La comparsa di alterata funzione neurologica sino alla condizione di stupor e di coma, in un soggetto che si è esposto acutamente all’alta quota, sono segni indicatori di possibile edema cerebrale. L’HACE è una condizione potenzialmente fatale, per tanto è fondamentale saper riconoscere i primi segni e sintomi di tale condizione, nonché adottare rapidamente le modalità comportamentali e terapeutiche adatte alla situazione. L’approccio terapeutico indicato e seguito passo per passo dal medico è contemporaneamente farmacologico e non farmacologico; uno degli aspetti fondamentali della gestione dell’HACE è, quando è fattibile, quello di scendere – realmente oppure virtualmente tramite il sacco iperbarico – di quota il prima possibile.
High Altitude Pulmonary Edema
Anche l’edema polmonare d’alta quota può essere un’evoluzione sfavorevole del mal di montagna acuto, oppure una entità patologica a sé stante. I sintomi sono a carico del sistema respiratorio. Nelle fasi avanzate possono sopraggiungere segni neurologici e coma. Anche l’HAPE è potenzialmente fatale e, pertanto, anch’esso deve essere individuato precocemente e correttamente trattato in tempi brevi. Anche per l’HAPE l’approccio terapeutico, impostato e condotto dal medico, è sia farmacologico che comportamentale; anche in questo caso è importante scendere – realmente o virtualmente – di quota se e appena sia possibile.