l’impatto della Caccia sull’ambiente
30 Dicembre 2021 ore 09:00 - 01 Gennaio 2022 ore 19:00
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2° CORSO DI FORMAZIONE
OPERATORE REGIONALE TUTELA AMBIENTE MONTANO
ORGANIZZATO DALLA
COMMISSIONE REGIONALE TUTELA AMBIENTE MONTANO DELLA CAMPANIA
L’IMPATTO DELLA CACCIA SULL’AMBIENTE
Tesi di fine corso:
Luigi Miriello
ANNO DI CORSO 2021 – 2022
a Giovanni Malara,
per la sua oltre trentennale
lotta al bracconaggio
Indice
Introduzione……………………………………………………………………………………… 6
- Inquinamento………………………………………………………………………………………… 9
1.1. Inquinamento diretto……………………………………………………………………………… 9
1.1.1. Inquinamento da piombo………………………………………………………………………… 9
- Perché viene utilizzato il piombo nell’attività venatoria………………………….. 10
- Effetti sugli animali: una strage silenziosa, lenta, inesorabile e dolorosa di individui e popolazioni…………………………………………………………………………. 10
- Effetti nel terreno………………………………………………………………………………… 11
- Zone umide…………………………………………………………………………………………. 12
- Quanto piombo viene disperso nell’ambiente per effetto dell’attività venatoria?…………………………………………………………………………………………. 12
- Effetti sulla salute umana del consumo di selvaggina abbattuta con munizioni di piombo……………………………………………………………………………………………….. 13
- Possibili soluzioni al problema del munizionamento con piombo……………… 13
1.1.2. Cartucce sul terreno……………………………………………………………………………… 14
1.1.3. “Disturbo venatorio”: un termine inadeguato…………………………………………. 15
1.2. Inquinamento indiretto…………………………………………………………………………. 16
- Maltrattamenti (e uccisioni) di animali………………………………………………….. 19
2.1. Uccelli da richiamo……………………………………………………………………………… 19
- Legalità vs moralità……………………………………………………………………………… 20
2.2. Cani da caccia: dalle stelle alle stalle…………………………………………………….. 21
2.3. Caccia alla volpe ed illeciti correlati……………………………………………………… 23
- Piani di ‘contenimento’ della volpe e caccia in tana………………………………… 23
- Perché la volpe?…………………………………………………………………………………… 24
- E la norma sul maltrattamento?……………………………………………………………… 25
- La realtà della caccia in tana…………………………………………………………………. 27
2.4. Caccia al cinghiale………………………………………………………………………………. 28
- Come vengono addestrati i cani per attaccare il cinghiale?………………………. 29
2.5. Animali domestici……………………………………………………………………………….. 29
2.6. Strumenti illeciti di caccia che provocano grandi e ingiuste sofferenze agli animali………………………………………………………………………………………………………….. 30
- Illeciti…………………………………………………………………………………………………. 31
3.1. La “malacaccia”: fattore di rischio per la biodiversità…………………………….. 31
- Conclusioni dello studio contenuto nel documento “Calendario del cacciatore bracconiere 2013/2014”……………………………………………………………………….. 33
3.2. L’Italia è il secondo “Stato Canaglia” del Mediterraneo per l’uccisione illegale di uccelli………………………………………………………………………………………………… 33
3.3. Ghiri: una caccia illecita e diffusa di una specie a rischio estinzione………… 36
- Reggio Calabria, i carabinieri sequestrano 235 ghiri congelati e pronti al ‘consumo’: è il cibo delle ‘mangiate’ di ‘Ndrangheta…………………………………. 36
3.4. Cacciatori o bracconieri?……………………………………………………………………… 37
- Incidenti di caccia e danni collaterali…………………………………………………….. 40
4.1. Gli animali colpiti……………………………………………………………………………….. 40
4.1.1. L’uomo … e i suoi cuccioli…………………………………………………………………… 40
- Come se non bastasse il prezzo in termini di vite umane ………………………… 42
- Piccole, incolpevoli e inconsapevoli vittime…………………………………………… 42
4.1.2. Gli animali domestici…………………………………………………………………………… 42
4.1.3 La fauna protetta………………………………………………………………………………….. 42
4.2. La flora e l’ambientalismo selettivo………………………………………………………. 43
4.3. Altri effetti collaterali: incolumità, disturbo alla quiete pubblica, procurato allarme sociale e danneggiamento cose mobili e immobili…………………………………… 45
4.4. … e la lista continua: il turismo e le attività ricreative ed escursionistiche… 46
- Incendi, clima e caccia: un trinomio letale per l’ambiente………………………. 48
- Immissioni e allevamenti di fauna selvatica … ma non libera………………….. 52
6.1. Le immissioni faunistiche: “selvatico” part-time…………………………………….. 52
6.1.1. Introduzioni………………………………………………………………………………………… 52
6.1.2. Reintroduzioni…………………………………………………………………………………….. 53
6.1.3. Ripopolamento: i cosiddetti animali “pronta caccia”……………………………….. 53
6.2. Allevamenti di fauna selvatica: un ossimoro…………………………………………… 54
- Centri privati di produzione fauna selvatica……………………………………………. 56
6.3. Allevamenti e immissioni: artifici necessari per la fauna o espedienti per il comodo dei cacciatori?……………………………………………………………………………………… 56
- La caccia è realmente sostenibile?……………………………………………………….. 59
7.1. Le teorie sulla sostenibilità della caccia e le argomentazioni che le confutano 59
7.2. Gli animali “nocivi”: la teorizzazione della “necessità” della caccia…………. 59
7.2.1. Il caso della nutria: da specie protetta ad animale nocivo…………………………. 61
7.2.2. Il caso del cinghiale……………………………………………………………………………… 62
7.2.2.1. Quali strumenti per il contenimento dei cinghiali?………………………………….. 62
7.2.2.2. Cinghiali: emergenza o comodo?…………………………………………………………… 66
7.2.3. La gestione dell’emergenza cinghiali e di altre “pest species” può essere demandata all’intervento dei cacciatori?………………………………………………… 67
7.3. I grandi assenti: principi tecnico-scientifici e prelievo consapevole e responsabile………………………………………………………………………………………………………….. 67
- Se Atene piange, Sparta non ride…………………………………………………………… 69
7.4. Le specie cacciabili diminuiscono: vittoria o sconfitta?…………………………… 70
- L’attuale stato di conservazione dell’avifauna………………………………………… 71
7.5. Valide considerazioni o falsi miti………………………………………………………….. 72
7.6. Perché ancora oggi si pratica la caccia?…………………………………………………. 72
- Caccia e associazioni ambientaliste………………………………………………………. 74
8.1. “Politica venatoria”: il punto 6 del Nuovo Bidecalogo del CAI………………… 74
8.2. Il ruolo delle associazioni ambientaliste nella società e la posizione del CAI sulla caccia…………………………………………………………………………………………………. 75
Conclusioni………………………………………………………………………………………………….. 78
appendice……………………………………………………………………………………………………… 80
- Tutela della fauna selvatica vs rispetto per la fauna selvatica (di
Luigi Miriello)…………………………………………………………………………………….. 81
- Cacciatori, quelli che «sparerebbero pure alla colomba dello Spirito Santo» (di Annamaria Manzoni)…………………………………………….. 82
- I controlli sulle attività venatorie (di Andrea Rutigliano)…………… 89
- La situazione del bracconaggio in Italia (di Giovanni Malara)…….. 90
Riferimenti Bibliografici e Sitografici……………………………………………………. 93
Ringraziamenti……………………………………………………………………………………………. 97
“Amate gli animali: Dio ha donato loro i rudimenti del pensiero e una gioia imperturbata. Non siate voi a turbarla, non li maltrattate, non privateli della loro gioia, non contrastate il pensiero divino. Uomo, non ti vantare di superiorità nei confronti degli animali: essi sono senza peccato, mentre tu, con tutta la tua grandezza, insozzi la terra con la tua comparsa su di essa e lasci la tua orma putrida dietro di te; purtroppo questo è vero per quasi tutti noi”
Fëdor Michajlovič Dostoevskij
Introduzione
Non è uno studio scientifico (non ne ho le competenze) ma una raccolta di informazioni che trovano fondamento in studi e ricerche e che muove i passi da una motivazione personale: tutelare l’ambiente nella sua accezione più ampia e che, pertanto, comprende le comunità degli animali. Più comunemente, il concetto di ambientalismo sembra rivolgersi soprattutto (o esclusivamente) ad aspetti che riguardano la protezione delle foreste, dei corsi d’acqua e dei mari, la lotta all’inquinamento, la riduzione della produzione di plastica ed altro ancora che, perlopiù, suscita maggiore allarme sociale. Talvolta definirsi “ambientalista” sfocia nel mero sentirsi parte di un gruppo, parte di una causa, parte di una tendenza o di una moda. Chiamarsi “ambientalisti” è bello, esserlo è difficile, impegnativo, scomodo: occorre informarsi, aggiornarsi, essere presenti in riunioni operative, nei luoghi, tra la gente, tra le Istituzioni e gli Enti, accendere discussioni, tenere posizioni, gestire contrasti, sostenere le proprie idee che servono per dar voce a chi non ce l’ha, che nulla mai saprà della lotta che si sta portando avanti per la sua tutela e che mai ti ringrazierà e che un giorno forse, addirittura, ti farà inciampare o ti morderà!
Il CAI è un’Associazione ambientalista. Ma noi soci CAI, siamo ambientalisti? Quanti soci frequentano la sede quando vengono presentate le escursioni e quanti sono coloro che partecipano agli incontri in cui si parla di ambiente? E quanti hanno mai sentito parlare di “Bidecalogo”? Tanti fra noi frequentano con diligenza i bellissimi luoghi che la Natura ci ha donato. Ne sappiamo cogliere il valore, li rispettiamo, li amiamo e sappiamo trarre meraviglia e gioia nel viverli con discrezione. Già questo non è poco: conoscere i luoghi, diffonderne le bellezze e le importanze, contribuire alla loro conservazione è di per sé un ottimo servigio alla nostra grande Casa Terra. Ma, ripeto, un ambientalista che a pieno titolo voglia “essere” tale dovrebbe, credo, far qualcosa in più. In realtà non serve fare molto di più, ma occorre fare qualcosa di più importante. L’ambiente ci regala tanto e il fatto di ammirarlo ci relega ad un ruolo passivo, di fruitori. Ecco, occorre restituire la cortesia all’ambiente, a mio avviso, ed essere attivi, attivisti! Il fatto di non abbandonare rifiuti sui sentieri quasi ci inorgoglisce e ci fa sentire talvolta tronfi e ambientalisti di un certo spessore. Riconoscere un albero, avere praticità con le definizioni (crinale, ferrata, …) ci eleva a conoscitori doc. Avere un’attrezzatura adeguata ci fa sentire quasi una elite. Eh, no! Conoscere le caratteristiche dei luoghi che andiamo a frequentare, rispettarli e viverli nei modi corretti è la base su cui occorrerebbe costruire il nostro spirito ambientalista! Il passo successivo dovrebbe essere il chiedersi, “cosa posso fare per l’ambiente?”, nel senso “come posso contribuire a tutelarlo?”. Fondamentale è, quindi, conoscerlo e capire cosa sia realmente l’ambiente.
Con grande “sorpresa”, molti “scopriranno” che l’ambiente comprende anche gli animali, quelli che ci fanno simpatia, quelli che ci affascinano, quelli dei quali non conosciamo neanche l’esistenza, quelli che ci fanno paura, quelli che ci danno fastidio e quelli dei quali non ci importa nulla.
Dalla mia esperienza (e solo di questo posso parlare), l’ambientalismo viene vissuto in maniera parziale sia perché è praticato in maniera “passiva”, sia perché rivolge la propria attenzione in particolar modo ai regni vegetale e minerale e, in misura parziale (e discriminatoria) al regno animale. Guai a tagliare un albero (giustamente!); guai a sciacquare le stoviglie in un torrente, neanche con saponi naturali e biodegradabili (giustamente!). Quando si parla, invece, di cinghiale, vengono in mente le pappardelle! E la tutela dell’ambiente? Il cinghiale fa parte dell’ambiente? I metodi per ucciderlo sono compatibili con il rispetto dell’ambiente? Produzioni di armi, munizionamenti ed accessori, spostamenti con mezzi 4×4, spari, piombo, cartucce, uccisione, danni collaterali (mica pochi e mica lievi, eh!) a flora, fauna ed esseri umani: tutto ciò è compatibile con il rispetto e la tutela dell’ambiente? Se ne potrebbe discutere se emergesse una reale necessità di praticare l’attività venatoria per proteggere l’ambiente da sé stesso o per le improcrastinabili esigenze dell’uomo, per garantirgli la sopravvivenza. Ci sono queste condizioni o tutto serve per mantenere uno spasso a pochi, un introito a pochissimi, a discapito dell’ambiente e del nostro ambientalismo latente?
Il punto 6 del Bidecalogo proprio non si può leggere! Sono trascorsi tanti anni dalla sua redazione: cosa è stato fatto ad oggi per sensibilizzare e orientare verso una migliore fruizione della natura, alla luce dell’auspicio dichiarato? La questione dell’approccio del CAI sul tema della politica venatoria sarà affrontata più avanti, nel capitolo dedicato.
Le abitudini alimentari stanno cambiando. Non lo si desume da facili slogan sui social ma dagli scaffali dei negozi alimentari, sempre più allestiti con interi spazi riservati ad alimenti a base vegetale. Ciò è segno di una nuova sensibilità che giunge dalla “gente comune”, mentre gli “ambientalisti” ancora fanno fatica a prendere le distanze da una pratiche crudeli, come quella venatoria, la cui esistenza oggi non ha più alcun senso. A differenza del passato, oggi vi è la possibilità di fruire della natura, senza spargimento di sofferenza e inquinamento, grazie al continuo proliferare di associazioni escursionistiche. Se poi si voglia vedere la caccia quale “sport”, ecco, sotto quel profilo, c’è solo l’imbarazzo della scelta: abbiamo avuto anche la possibilità di fruire del cosiddetto “bonus bici”!
Si assiste, talvolta, ad una sorta di “ambientalismo selettivo”, come mi piace definirlo. Selettivo perché in ambito escursionistico si mostra molto rigido; diventa cieco, sordo e muto, invece, nel contesto venatorio. Selettivo anche perché particolarmente attento all’intero habitat, si distrae un po’ se la questione riguarda le comunità, salvo che non si tratti di lupo, orso, aquila reale e qualche altro “nobile” esemplare.
E di nuovo torna la domanda: il CAI è un Sodalizio ambientalista, ma i suoi associati sono ambientalisti? Molti sì, sono impegnati in maniera attiva e appassionata, spendendo energie e risorse per la ricerca e per la divulgazione della cultura di tutela ambientale. Tanti altri, più semplicemente, sono “escursionisti della domenica”, non propriamente consapevoli della causa ambientale sostenuta con grandi sforzi dall’associazione di cui fanno parte. Attraverso la pratica escursionistica ben possono essere veicolate le tematiche ambientali e questa è una grande opportunità per il CAI di “formare” uno spirito ambientalista sempre più ampio e consapevole. Se in certi settori della tutela ambientale il dibattito è sempre aperto e vivace, vi sono alcuni ambiti che rimangono un po’ in secondo piano. Uno di questi è la caccia. Già, perché l’attività venatoria un impatto sull’ambiente ce l’ha!
- Inquinamento
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- Inquinamento diretto
L’esercizio dell’attività venatoria, per forza di cose, prevede tutta una serie di interazioni tra l’uomo e un ambiente delicatissimo, fragile. L’invasività intrinseca di questa pratica (spari, uccisioni, rilascio di piombo) non può che avere delle rilevanti implicazioni per gli ecosistemi con i quali viene a contatto. Talune ricadute sull’ambiente sono particolarmente infauste. Tra queste, quella dell’inquinamento rappresenta una problematica che gioca un ruolo decisivo per la salute e la conservazione degli habitat e delle comunità. Sotto questo profilo, le attività venatorie gravano sull’ambiente tanto in maniera diretta, quanto indiretta. Nel primo caso, quello dell’inquinamento diretto, si annoverano, ad esempio, il problema del piombo che viene disseminato nell’ambiente e le gravi conseguenze che determina, l’abbandono di cartucce (se non pure di altro) sul terreno e, ancora, il “disturbo venatorio”. Nei dibattiti sui temi concernenti la caccia, sotto il profilo della sua invasività, la questione del disturbo venatorio rimane alle volte ai margini della discussione. Vedremo, invece, come l’argomento ha una rilevanza cruciale per il destino della fauna selvatica, sia essa cacciabile o protetta.
Inquinamento da piombo[1].
Il piombo è un metallo tossico del quale, negli ultimi decenni, è sempre più stato vietato l’utilizzo in determinati settori: produzione benzine, tubazioni, pesi da pesca ed altro. Se dapprima, in ambito venatorio, le ricerche hanno mosso i primi passi per la conservazione dell’avifauna delle zone umide, in un secondo momento ci si è resi conto che il munizionamento a base di piombo costituiva un serio rischio di avvelenamento anche per tutti gli altri uccelli, oltre che un pericolo di inquinamento del suolo, con implicazioni anche per la salute di chi la selvaggina la consuma. V’è da dire che, finché il piombo rimane racchiuso nei minerali e non entra in contatto con acqua e ossigeno, non ha un impatto rilevante per l’ambiente. Nel momento in cui viene estratto, però, già gli stessi scarti minerari e i detriti generano dispersione di piombo nell’ecosistema per effetto degli agenti atmosferici. Con ciò si vuol significare che non solo l’uso del piombo impatta sull’ambiente ma già, a monte, la sua estrazione!
Perché viene utilizzato il piombo nell’attività venatoria?
Il piombo è stato ed è utilizzato nei munizionamenti per la caccia per tutta una serie di caratteristiche che lo rendono particolarmente idoneo allo scopo venatorio. Da una parte, il suo elevato peso specifico rappresenta una garanzia in termini balistici, considerato che proprio quella proprietà assicura traiettorie e velocità regolari del proiettile. Il fatto che il piombo sia particolarmente duttile e malleabile, rende il proiettile decisamente letale: infatti, quando la palla colpisce l’animale, si deforma e si frammenta, creando un impatto devastante per l’individuo attinto. Chi non morirà tra i colpi ed avrà ancora forza di fuggire, andrà incontro ad una lunga agonia, fatta di stenti, dolori, dissanguamento, o sarà facile preda di altri animali.
Vediamo adesso, più in dettaglio, quali possono essere le conseguenze su uomo, habitat e animali derivanti dal piombo usato per lo svolgimento dell’attività venatoria.
Effetti sugli animali: una strage silenziosa, lenta, inesorabile e dolorosa di individui e popolazioni.
Gli uccelli che abbiano ingerito pallini di piombo o schegge di proiettili (ad esempio, quelli usati per la caccia al cinghiale) vanno incontro ad una morte atroce, talvolta lentissima. Per quel che riguarda gli uccelli, in generale, si assiste ad una riduzione drastica delle attività e delle prestazioni dei volatili che non riescono più ad essere coordinati nel volo e nell’atterraggio. A causa di ciò, rimangono facilmente vittima di predatori o cacciatori e di frequenti incidenti dovuti a collisioni con autoveicoli, fili elettrici, vetrate e non riescono a svolgere le loro normali attività di accoppiamento, nidificazione, deposizione uova e allevamento dei piccoli.
Gli uccelli affetti da saturnismo[2] iniziano a presentare anomale posture di testa e collo, poi diarrea, paralisi dell’apparato digerente seguita da paralisi delle ali e delle zampe. Un’agonia lunga che li conduce a morte certa.
Gli effetti del saturnismo sui mammiferi, sono connotati da una mortalità precoce, una ridotta capacità di reagire agli impulsi esterni e la possibile insorgenza di neoplasie. Gli individui colpiti dall’avvelenamento possono presentare plurimi sintomi: cecità, anemia, vomito, eccessiva salivazione, coliche intestinali, perdita di coordinamento nei movimenti, inappetenza, debolezza ed altro.
Oltre ad avere letali ripercussioni sulla salute dei singoli animali, l’avvelenamento da piombo può determinare gravi riflessi anche sullo stato di conservazione di intere popolazioni di uccelli. Ad essere maggiormente esposte al rischio sono le specie più longeve, che abbiano un tasso riproduttivo basso e che raggiungano tardi la maturità sessuale. Infatti, nel corso della loro vita, sono molto alte le probabilità che un individuo ingerisca frammenti di piombo o parti di altri animali infetti. Quindi, è molto alta la possibilità che quell’individuo divenga sterile o muoia prima di aver procreato un numero di volte sufficiente a garantire la propria discendenza. Non può escludersi, pertanto, che col tempo alcune popolazioni possano estinguersi. Tale prospettiva non riguarda solo le specie necrofaghe.
Effetti nel terreno
Affinché un pallino di piombo possa dissolversi nel terreno occorrono dai 30 ai 300 anni, a seconda delle condizioni atmosferiche e della composizione del suolo. Se è vero che la contaminazione dovuta ad un semplice pallino di piombo è potenzialmente limitata alla zona in cui il pallino è caduto, nella realtà dei fatti, gli effetti inquinanti sono potenzialmente più ampi e gravi. Ad esempio, possono contribuire alla diffusione di quel piombo gli agenti atmosferici, la pendenza del terreno e la composizione dello stesso. Inoltre, può essere assorbito dalle piante attraverso l’apparato radicale e dagli organismi che vivono in quel terreno, entrando così nella catena alimentare che, pertanto, può interessare anche l’uomo, sia per l’ingerimento di carni selvatiche intossicate, sia per l’inquinamento di aree destinate a colture agricole, sia per l’ingestione diretta di polveri di piombo, create dallo sfregamento dei pallini all’interno della canna del fucile.
Zone umide[3]
Non marginali sono i danni potenziali del piombo delle munizioni che finiscono nelle zone umide. Le forme solubili che si liberano dalle alterazioni del piombo possono essere assorbite da alghe e pesci e i pallini possono essere scambiati per cibo dagli uccelli acquatici, con riflessi letali per gli organismi che ne vengono a contatto direttamente e con potenziali conseguenze anche per l’uomo. Considerata l’importanza delle zone umide e la vulnerabilità di quegli habitat, con il Regolamento (UE) 2021/57 della Commissione, recante modifica dell’allegato XVII del regolamento (CE) n. 1907/2006, l’Unione Europea ha inteso porre adeguata tutela disponendo, tra l’altro, che “Dopo il 15 febbraio 2023, all’interno di zone umide o a non oltre 100 metri da esse è vietato svolgere le seguenti attività: a) sparare munizioni contenenti una concentrazione di piombo (espressa in metallo) uguale o superiore all’1 % in peso; b) portare con sé munizioni di tale tipo quando si svolge attività di tiro in zone umide, ci si sta recando a svolgere attività di tiro in zone umide o si rientra dopo aver svolto tale attività”[4].
Quanto piombo viene disperso nell’ambiente per effetto dell’attività venatoria?
Ma quanto piombo viene riversato sul territorio a causa dell’attività venatoria? Tanto, tantissimo, troppo! Stime parlano di circa 5 tonnellate nell’anno 2006 in Italia[5]. In più, considerati i cosiddetti “appostamenti”, in particolari zone si registra una presenza abnorme di piombo nel medesimo fazzoletto di suolo, dovuto al fatto che alcune postazioni esistono da decenni. Possiamo solo immagine quale sia il livello di inquinamento legalizzato, purtroppo. Oltre all’inquinamento da piombo, occorre tenere in considerazione anche quello causato dall’arsenico e dall’antimonio (altri elementi di cui sono costituiti i pallini e i proiettili da caccia), altamente tossici per gli organismi e particolarmente solubili e, quindi, in grado di raggiungere le falde acquifere. “Il piombo che deriva dai pallini da caccia può essere trasferito alla componente biologica dell’ambiente, soprattutto agli Invertebrati del suolo e del sedimento acquatico, nonché essere assorbito dalle piante e salire ai livelli superiori della catena trofica”[6].
Effetti sulla salute umana del consumo di selvaggina abbattuta con munizioni di piombo
Studi scientifici hanno dimostrato come il consumo di selvaggina abbattuta con munizionamento contenente piombo possa causare gravi danni alla salute dell’uomo. Infatti, diverse ricerche condotte con differenti metodologie hanno evidenziato come la rimozione del munizionamento al piombo dalle carni degli animali uccisi può non essere sufficiente a scongiurare il rischio di avvelenamento da piombo. Attesa la duttilità e malleabilità del piombo, non è difficile che nell’attraversare le carni degli animali, alcune minute schegge di munizionamento possano rimanere nei tessuti e sfuggire alla fase di preparazione e consumo della carne stessa. Questi frammenti poi rischiano di contaminare tutto il cibo durante la cottura poiché si dissolvono nei sughi, specialmente venendo a contatto con alte temperature e determinati ingredienti.
Perdipiù, è esposto al rischio di avvelenamento da piombo chiunque consumi selvaggina che, a sua volta, è affetta da saturnismo per aver ingerito piombo o per essersi cibata di altri animali infetti. Particolarmente gravi possono essere gli effetti da avvelenamento di piombo sui bambini e adolescenti e donne in stato di gravidanza o di allattamento. In particolare, per quanto riguarda i bambini, si è potuto constatare che costoro sono esposti a ritardi nello sviluppo psichico e difficoltà nella capacità cognitive.
Possibili soluzioni al problema del munizionamento con piombo
Riscontrata la problematica relativa al piombo e valutata la grave rilevanza della questione per l’uomo e l’ambiente, si è tentato di seguire delle strade volte ad eliminare il problema. Si è provato, quindi, a sperimentare la soluzione data da pallini rivestiti sia da plastica, sia da metalli (nickel, stagno). Il tentativo è stato fallimentare dal momento che lo strato inerte esterno del munizionamento veniva danneggiato (se non addirittura rimosso) tanto dalle abrasioni derivante dall’azione meccanica, quanto dai succhi gastrici. Pertanto, la tossicità di detto munizionamento rivestito è di fatto risultata pari a quello costituito da piombo puro. Un’ulteriore alternativa, stavolta ben più efficace, è rappresentata dalla totale sostituzione del piombo con altri materiali non tossici, come ad esempio l’acciaio. Il costo delle munizioni in acciaio, però, è più costoso di circa 10-30% rispetto al munizionamento tradizionale.
Cartucce sul terreno
Il piombo non è il solo materiale lasciato sul campo dai cacciatori. Non è il solo a causare un pericoloso inquinamento. Si è soliti, infatti, trovare per i boschi, disseminate un po’ ovunque, anche le cartucce, fatte in materiale plastico e di metallo. Tracce inequivocabili del malcostume di tanti praticanti l’attività venatoria: inquinano, deturpano il paesaggio e, trovandosi anche in zone vietate alla caccia, fanno ben capire quanto taluni cacciatori tengano al rispetto dell’ambiente e della normativa. In spregio alla bellezza, alle regole, alla morale, lasciano un pessimo segno di sé.
“Disturbo venatorio”[7]: un termine inadeguato
Ma cosa dobbiamo intendere per “disturbo”? Nel linguaggio comune, il termine assume un significato molto simile a “fastidio” o “seccatura”, perlopiù assimilabile ad un qualcosa di sgradito, probabilmente tollerabile, lieve, passeggero. Per esprimere un disagio più deciso, duraturo, meno tollerabile, verosimilmente inizieremmo a parlare di “molestie” o di “insopportabilità”. Ebbene, quello venatorio non è un “fastidio” e, forse, neanche una “molestia” per gli animali. Più probabilmente, quel disturbo può creare gravi traumi, portare ad abbandonare un nido e condurre alla morte più individui. La reale portata della locuzione “disturbo venatorio” è ben descritta da Massimo Tettamanti: “Nel considerare gli effetti negativi della caccia sulle popolazioni animali l’attenzione si focalizza normalmente sugli animali uccisi o feriti a morte il cui numero è stimabile nel nostro Paese in circa cento milioni all’anno; ma è opportuno considerare anche gli effetti che la caccia ha sulla vita e i comportamenti degli animali che non perdono la vita a causa dei cacciatori: l’azione negativa che la caccia esercita ai danni degli animali che non vengono uccisi o feriti si definisce disturbo venatorio. Per valutarne la natura e l’entità è necessario porre mente a ciò che accade in un ambiente naturale durante una giornata di caccia Non appena viene sparato un colpo, che spesso abbatte un loro compagno, gli animali intenti alle loro attività, esattamente come farebbero gli esseri umani che si trovassero improvvisamente coinvolti in una sparatoria, interrompono qualunque cosa stiano facendo per darsi alla fuga o nascondersi, e continuano a fuggire o a rimanere nascosti (o ad alternare i due comportamenti) fintanto che durano gli spari, vale a dire per molte ore di seguito; questa reazione di panico colpisce, com’è ovvio, tutti gli animali presenti su un territorio, che appartengano o meno a specie cacciabili, e la situazione che abbiamo descritto si ripete per tutti i cinque mesi di apertura legale dalla caccia nel nostro Paese. Se si considera che la maggior parte degli animali in qualunque ecosistema appartengono a specie che per sopravvivere hanno bisogno di trascorrere buona parte del loro tempo ad alimentarsi, si capirà facilmente che una delle principali conseguenze del disturbo venatorio è la drastica riduzione della quantità di cibo che gli animali riescono ad assumere. In casi estremi ma tutt’altro che infrequenti la conseguenza è la morte per fame; ma questo stato di cose ha invariabilmente l’effetto di rendere gli individui più deboli, e quindi più vulnerabili, e le popolazioni animali che vivono nelle regioni in cui la caccia è permessa sono più soggette a malattie epidemiche, nonché meno capaci di riprodursi. Le conseguenze psicologiche sono ancora più devastanti: è noto che caprioli ed alci possono letteralmente morire di crepacuore mentre vengono inseguiti dai battitori”[8].
Il disturbo venatorio, poi, non distingue la fauna selvatica cacciabile da quella protetta. E, quindi, viene da chiedersi quanto realmente siano tutelate le specie non cacciabili, considerato l’invasività della pressione venatoria sugli habitat e lo stress provocato agli animali. La dispersione dei nuclei familiari e lo stravolgimento delle abitudini di taluna fauna potrebbe avere un impatto anche particolarmente grave sulle specie a rischio estinzione [9].
Inquinamento indiretto
Uno studio realizzato dal Tettamanti[10] nel contesto del 1° Convegno Nazionale dell’Associazione Vittime della Caccia del 22 febbraio 2008 a Roma, ha evidenziato il potenziale impatto ambientale determinato dalle sole fasi di preparazione e uso delle cartucce da caccia, in un solo anno di attività venatoria. Il risultato è sorprendente, oltre che allarmante.
Per l’analisi in questione è stata utilizzata la metodologia Life Cycle Assessment (LCA), definita come “un procedimento oggettivo di valutazione dei carichi energetici ed ambientali relativi ad un processo o un’attività, effettuato attraverso l’identificazione dell’energia e dei materiali usati e dei rifiuti rilasciati nell’ambiente. La Valutazione include l’intero ciclo di vita del processo o attività, comprendendo l’estrazione ed il trattamento delle materie prime, la fabbricazione, il trasporto, la distribuzione, l’uso, il riuso, il riciclo e lo smaltimento finale”.
Lo studio condotto ha ipotizzato il ricorrere della seguente casistica:
- Numero di cacciatori in Italia: 700.000.
- Numero di giornate di caccia in un anno: 74 (solo domeniche: 24).
- Ogni cacciatore caccia solo in una giornata permessa ogni tre.
- Ogni cacciatore raccoglie il bossolo e non lo abbandona nell’ambiente di caccia ma lo butta nell’apposito raccoglitore di rifiuti.
- Ogni cacciatore spara un solo colpo ogni giornata di caccia.
- I pallini di piombo non finiscono mai sul fondo di laghi o acquitrini. Non viene quindi considerato il problema dell’accumulo di pallini di piombo sul fondo dei laghi, stagni e acquitrini.
- Il bossolo può essere composto da diversi materiali: dato che solitamente si utilizza il Polietilene, è stato considerato un impatto medio di tutti gli impianti di polimerizzazione di cui erano disponibili dati.
- Come metallo per il rivestimento della parte inferiore del bossolo è stato considerato il lamierino di ferro.
Nello studio sono state considerate tre macro-categorie di danno, mutuate dal metodo Ecoindicator 99: danni connessi alla salute umana (sostanze che impattano sulla respirazione, sulla carcinogenesi, sui cambiamenti climatici e sullo strato di ozono), alla qualità degli ecosistemi (ecotossicità, acidificazione, eutrofizzazione) e alle risorse (estrazione e utilizzo di risorse minerarie e di combustibili). I risultati sono poi stati letti con tre differenti approcci alla problematica (Ecoindicator 99): individualistico, gerarchico e egalitario.
Risultati: applicando il modello individualistico, si è potuto constatare che l’impatto ambientale del ciclo di vita delle cartucce utilizzate per un anno di caccia (secondo l’ipotesi astratta sopra riportata) è corrispondente a quello determinato dallo smaltimento in discarica di 600.000 tonnellate di rifiuti solidi urbani. Entrambi gli altri approcci – gerarchico e egalitario – hanno evidenziato un risultato che è sovrapponibile all’impatto ambientale relativo allo smaltimento in discarica di 20.000 tonnellate di rifiuti solidi urbani.
Tra l’altro, lo studio sopra riportato, ha tenuto in conto una pratica venatoria “virtuosa” e molto limitata, ovvero praticata da un cacciatore regolarmente registrato, rispettoso del calendario venatorio legalizzato, non desideroso di cacciare ogni volta che può, attento a raccogliere i bossoli, attento a sparare solo “a colpo sicuro” e non più di una volta al giorno, attento a non indirizzare il colpo verso zone d’acqua. Lo studio condotto evidenzia come la caccia – sempre considerando soltanto quella praticata nell’ambito della legalità – potenzialmente potrebbe avere un impatto ambientale annuo insostenibile se si pensa che potrebbe essere sovrapponibile a quello determinato dallo smaltimento diretto in discarica di tutti i rifiuti di una grande regione, oltre che dallo smaltimento nell’ambiente di circa 500.000 batterie di automobile! Emerge così un aspetto paradossale, posto in rilievo nel documento del Tettamanti: “Entrambi gli impatti citati, smaltimento diretto in discarica di rifiuti e smaltimento nell’ambiente delle batterie d’auto sono vietati per legge. In particolare la Legge 475/88 stabilisce che «È obbligatoria la raccolta e lo smaltimento mediante riciclaggio delle batterie al piombo esauste» mentre la diffusione diretta del piombo nei boschi a causa della caccia è ammessa e finanziata a livello statale. Anche senza considerare gli effetti dovuti al saturnismo e all’uccisione diretta di esseri umani, impatti definibili “danni collaterali” della caccia, l’impatto ambientale permesso dall’attuale normativa è assolutamente insostenibile”.
Tante (tutte!) sono le attività antropiche che producono impatto ambientale diretto e/o indiretto. Se da un lato non possiamo vivere sotto una campana di vetro, dall’altro possiamo e dobbiamo ridurre quelle attività non essenziali né utili che logorano la nostra Matria. I materiali e l’energia utilizzati per l’esistenza della caccia hanno già di per sé un rilevante impatto sull’ambiente, ancor più grave poiché da tale impatto “preparatorio” che precede l’esercizio dell’attività venatoria, ne deriva uno “diretto” rappresentato dalla caccia vera e propria.
2. Maltrattamenti (e uccisioni) di animali
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- Uccelli da richiamo
Liberi, nati liberi e liberi di andare ovunque. Poi l’uomo, onnipotente, decide che quella libertà deve finire. Li cattura, dunque, e li mette in gabbiette. Gli uccelli non comprendono: prima potevo volare ovunque, su è giù, in lungo e largo; c’erano il sole e le nuvole e la notte e il vento; l’aria era pulita e l’occhio si perdeva lontano all’orizzonte; e gli alberi su cui riposare o amoreggiare e il terreno in trovar da mangiare e le piccole pozze in cui bere e fare il bagnetto; i rituali, il nido, il dolce “chiacchiericcio” con gli altri uccelletti. Nulla di ciò sarà più possibile per te, caro pennuto. Adesso il tuo mondo sarà questa angusta gabbietta: deciderò io se e cosa mangerai o berrai; di volare non se parla proprio; alberi? Un lontano ricordo! Bagnetto? Non so neanche che tu abbia questa esigenza. Sole, vento, orizzonte, amoreggiamento e tutto il resto farai meglio a dimenticarlo perché non lo avrai più. Il tuo nuovo mondo è una celletta che, se ti va bene, sarà posta su uno scaffale in una cantina fredda, umida, con aria terribile e poca luce. Vivrai e morirai nei tuoi escrementi. Se proverai a volare ti ferirai, perché lì non c’è spazio per le tue ali che farai bene a tenere chiuse.
Poi arriva un momento in cui il tuo padrone deciderà che dovrai lasciare quella cantina. Caricherà la tua gabbietta in macchina e, fra gli sballottolamenti cui non sei abituato, vi condurrà in un posto nuovo. Luce, aria, alberi … finalmente la libertà? La prigione è finità? Neanche per sogno. Appende la tua prigione al ramo di un albero e tu inizi a cantare. Ecco, ti ha appena trasformato in una trappola. Lui non si vede più ma non è andato via, si è solo nascosto, il grand’uomo. Tu canti, se di felicità o di dolore non lo sapremo mai, e neanche ci interessa. Ma canti, intanto, ed è quel che importa per il padrone. Anzi, è proprio ciò che si aspetta da te, ciò che vuole, ciò per cui ti ha catturato. Canti. Canti incolpevole, canti inconsapevole, e così facendo attiri altri uccelletti. Con occhi avidi il padrone osserva i tuoi amici che si avvicinano e, al momento buono … bang … li cattura tutti. E poi ricomincia, e ancora ricomincia. Poi si ritorna in cantina e domani si ricomincia, e ancora si ricomincia …
Una pratica crudele quella dei richiami vivi, indegna, vile, da par di chi si accanisce con ogni mezzo contro esseri indifesi che neanche sanno di doversi difendere, di dover scappare. Se possibile, vi sono “varianti” ancor più terribili di questa nefandezza. Gli uccelli cantano di più in primavera, nella stagione degli amori, ma la caccia inizia ad ottobre. Quindi, come si fa? Facile: basta far credere agli uccelli che in ottobre inizia la primavera. Sembra impossibile, vero? Alcuni cacciatori hanno trovato la soluzione. Dato che, in natura, durante la primavera gli uccelli cambiano il piumaggio, è sufficiente strappar loro le piume a giugno cosicché ricresceranno ad ottobre e loro penseranno che è primavera. Semplice, no? E poi, per far credere che giugno sia inverno, basta tenerli al buio e il gioco è fatto.
Poi un giorno moriranno, tra i loro escrementi, nel buio di una stanza, con ali atrofizzate e piaghe alle zampette, e finalmente ritroveranno la libertà e torneranno a volare nel cielo azzurro ed infinito, lontano dagli uomini … o almeno così ci piace immaginare che possa essere.
Legalità vs moralità
È vero, la normativa vigente consente l’utilizzo di uccelli da richiamo. Ma dal punto di vista dell’“ambientalista”, questa pratica può essere accettata? Benché autorizzati e, pertanto, non costituenti fattispecie illecite, non costituiscono tali condotte dei veri e propri maltrattamenti dell’“ambiente”, fatti di uccisioni senza necessità, limitazioni di libertà dei “richiami” con condizioni di vita (se di “vita” si può ancora parlare) lontanissime dalle caratteristiche etologiche dei malcapitati, “uso” dei “richiami” come fossero meri oggetti? È chiaro che parlando qui di “maltrattamenti” non ci si riferisce all’art. 544 ter del codice penale (rubricato “Maltrattamento di animali”), considerata l’esclusione della punibilità per chi usa i “richiami vivi” nel rispetto della normativa vigente. Rimane, però, una questione “morale”. Se, ad esempio, si costringesse un cane a fare altro rispetto alla propria natura – come addestrarlo a combattimenti – la comunità ne sarebbe molto turbata. La questione dei “richiami”, ancorché sovrapponile all’esempio precedente in ordine alla natura degli uccelli, appare ancora oggi tollerabile. È del tutto evidente che la differenza tra i due casi è solo nei nostri occhi, nella nostra testa, nella nostra sensibilità e nella tutela giuridica. Ebbene, l’ambientalista davvero amante dell’ambiente, dovrebbe cogliere le somiglianze fra le due ipotesi citate e dovrebbe attivarsi affinché le cose possano cambiare, perché non esistono solo il lupo o l’orso o l’aquila da proteggere. Esiste, invece, l’ambiente tutto da tutelare che comprende anche il più “insignificante” individuo che vive l’habitat.
Sono nato in libertà, ero libero di andare ovunque ….
Sono un uccello da richiamo. Servo per uccidere i miei fratelli.[11]
Cani da caccia: dalle stelle alle stalle
“Un discorso a parte meriterebbero poi altre vittime animali, i cani, trasformati in aiutanti killer mediante un addestramento vigoroso: le cronache raccontano dell’abbandono e della soppressione dei “soggetti” non idonei, della detenzione in gabbie che sono prigioni per tutto il tempo non destinato alle battute, di quelli da annoverare tra le vittime accidentali di colpi sparati a casaccio”.[12]
Rendiamo il cane amico dell’uomo, nemico degli animali. Lo addestriamo per questo, per obbedirci, per riconoscere la preda, per braccarla, morderla, stanarla, ucciderla. Ciò è lecito. Lo esponiamo al rischio infortuni durante le battute di caccia. Può ferirsi sul terreno o negli scontri con i selvatici o rimanere vittima di qualche sparo. Roba di poco conto per noi esseri superiori: è tutto lecito. Rinchiusi in gabbie, liberati solo per addestramento o caccia. Quel cane è l’orgoglio del suo padrone, compagno di avventure, selfies, protagonista di racconti con gli amici. Il cacciatore è davvero convinto di trattarlo da re. Poi arriva il momento in cui il cane, però, non serve più. Ha perso l’istinto, non esegue i comandi, è vecchio e non ce la fa. Non è più un valido nemico degli animali e non è più un valido amico dell’uomo cacciatore. Non è più un cane da caccia. Non è più ciò per cui è stato acquistato, cresciuto, addestrato, mantenuto. Il fido amico non serve più, è solo un peso. Meglio far spazio alle nuove leve. E così, sarà tradito e lasciato per le campagne a finire i suoi giorni. Dovrà imparare a difendersi, a procurarsi da mangiare e da bere, e trovare un riparo. Oppure sarà semplicemente abbattuto dal suo “amico” a due zampe, forse per pietà, forse per incassare un indennizzo.
“Gli indennizzi possono andare da 400 a 2000 euro e più. Alcune associazioni animaliste denunciano il fatto che ci possano essere anche delle truffe dietro ad un numero così alto di incidenti, e che i cacciatori si liberino dei cani considerati ormai inadeguati alla caccia (perché malati o anziani) mascherando la loro uccisione come incidente di caccia, per intascare l’indennizzo”.[13]
“Setter, segugi, breton… la storia si ripete. Il cacciatore compra un cane da caccia e lo prova, lo testa sul terreno. Se dopo le prime battute il fido compagno adempie al suo dovere viene arruolato, altrimenti la scelta è ucciderlo o, più comunemente, abbandonarlo – spiega Adelina Abeni, titolare del canile di San Rocco [nel bresciano, n.d.r.]”[14].
Secondo Lorenzo Croce, Presidente dell’Associazione AIDAA: “Sono almeno 40.000 i cani abbandonati ogni anno da cacciatori e pastori, che nella migliore delle ipotesi vanno a riempire i canili del centro e sud Italia mentre molto spesso gli abbandoni avvengono nelle campagne, dove i cani crescendo si incrociano e vanno ad incrementare il numero dei randagi”[15].
“La fauna è un bene collettivo, della comunità globale, che dobbiamo custodire anche per le prossime generazioni, eppure si consente ad una piccolissima parte di popolazione (meno dell’1% in Italia) di disporne a proprio piacimento, di brutalizzare e distruggere tanta bellezza, in cambio di quel misero insignificante obolo che viene richiesto per rilasciare il tesserino venatorio. Licenza di uccidere a basso costo, che paghiamo tutti a caro prezzo”[16].
Caccia alla volpe ed illeciti correlati[17]
“In Italia la volpe è cacciabile nel corso di tutta la stagione venatoria. Inoltre, i piani provinciali di ‘contenimento’ della specie, prevedono estensioni, sia temporali che spaziali. Ne consegue che le volpi possono essere uccise durante tutto il corso dell’anno ed anche nelle zone dove normalmente la caccia è vietata. Particolare efferatezza caratterizza la caccia in tana, dove cani di piccola taglia, appositamente addestrati, entrano nelle tane allo scopo di far uscire adulti e cuccioli che diventano bersagli dei cacciatori. Molto spesso, però, gli stessi cani ingaggiano scontri furibondi con i cuccioli e con le madri, intente a proteggerli. Con il risultato che molte volpi – sia cuccioli che adulti – vengono sbranate, mentre i cani riportano spesso gravi ferite. Tutto ciò accade perché in alcuni casi le volpi possono predare capi di “fauna di interesse venatorio”, liberata sul territorio mediante i programmi di ripopolamento degli ATC. Ma ciò che accade nelle tane delle volpi assume rilevanza penale, in quanto configura il reato di maltrattamento di animali, con la violazione dell’art.544 ter e bis del Codice penale. Se un cucciolo viene sbranato, se un cane da tana risulta ferito, si possono configurare gli estremi per poter segnalare i responsabili all’autorità giudiziaria”.
Piani di ‘contenimento’ della volpe e caccia in tana[18]
“In tutta Italia ogni anno in primavera, dunque durante la chiusura della stagione venatoria e nel pieno del periodo riproduttivo, vengono attivati piani di ‘contenimento’ della volpe mediante differenti strumenti, tra cui l’uso dei cani per stanare le volpi in tana.
Prima di analizzare le ripercussioni in termini sostanziali e giuridici di tale procedura, è certamente utile un rapido excursus sul quadro normativo di riferimento. La legge n. 157 del 1992, che disciplina la protezione della fauna selvatica, all’art. 1 stabilisce che tutta la fauna selvatica è protetta quale patrimonio indisponibile dello Stato, sono poi concesse legittime ‘apprensioni’ di talune specie, ivi compresa la volpe, esclusivamente nei modi e termini stabiliti dalla legge stessa.
In particolare, il cosiddetto ‘controllo della fauna selvatica’ è consentito esclusivamente nei termini e con le modalità previste all’art. 19 della L.157/92, mentre i soggetti abilitati ad eseguire i piani di controllo sono le guardie provinciali e i proprietari e conduttori di fondi ove si attuano i piani medesimi, muniti di licenza per l’esercizio venatorio, nonché le guardie forestali e comunali, purché munite di licenza per l’esercizio venatorio. I mezzi per l’esercizio venatorio sono elencati all’art. 13 della L. 157/92 e comprendono il fucile ad anima liscia, il fucile a canna rigata, il fucile combinato a più canne (anima liscia e rigata). L’art.13, inoltre, sancisce espressamente il divieto di uso di qualsiasi altra arma e mezzo non espressamente previsto nell’articolo stesso. In termini generali, sono comunque vietate tutte quelle modalità che causino strazio o gravi sofferenze agli animali coinvolti, se non espressamente legittimate dalla norma in questione.
I piani di ‘controllo della fauna selvatica’, pur esulando dall’attività venatoria propriamente detta, ampliano de facto le previsioni contenute nel calendario venatorio, espandendo a tutti i 12 mesi dell’anno il periodo in cui è consentita l’uccisione delle volpi. Ma non di sola espansione temporale si tratta; infatti, i piani di controllo consentono l’attività di abbattimento delle volpi anche in quella parte di territorio normalmente preclusa all’attività venatoria, in particolare le cosiddette ZRC – Zone di Ripopolamento e Cattura”.
Perché la volpe?[19]
“Da quanto sopra premesso viene da chiedersi per quale motivo le volpi siano oggetto di una campagna di uccisione praticamente permanente, diffusa anche nelle aree normalmente interdette alla caccia, condotta mediante l’uso di fucili da caccia sia ad anima liscia, sia ad anima rigata, ma anche avvalendosi dei cosiddetti coadiutori, cacciatori dotati di cani appositamente addestrati ad entrare nelle tane di volpe. Una risposta è nella natura stessa della volpe, un predatore estremamente adattabile che ripulisce le nostre campagne dalla presenza di piccoli roditori, ma che a volte, non disdegna di rivolgere le sue attenzioni anche verso fagiani e lepri, fauna cosiddetta “di interesse venatorio”. Per questo, non di rado accade che la volpe, l’unico predatore abbastanza diffuso sul territorio e quindi animale in grado di mantenere in equilibrio la presenza di altre specie, divenga bersaglio dei fucili, per tutto il corso dell’anno, al solo scopo di limitare le perdite di fauna ‘di interesse venatorio’.
Uno scopo dichiarato illegittimo anche dal Consiglio di Stato (CdS VI ord. 6.2.07 n.727). Accade così che per poter uccidere lepri e fagiani, artificiosamente immessi sul territorio con grave danno per l’ambiente, ogni anno si uccida anche un numero imprecisato di volpi, certamente nell’ordine delle decine di migliaia di esemplari.
Le volpi, come qualsiasi altro animale selvatico, sono sempre in perfetto equilibrio con le risorse offerte dall’ambiente che le ospita. È chiaro quindi che la loro presenza è determinata in misura principale, dalla disponibilità di prede. Se questa viene alterata da progetti di ripopolamento attuati ad esclusivo beneficio dei cacciatori, ne deriva, quale logica conseguenza, che il territorio possa poi ospitare un maggior numero di volpi. In ogni caso, qualunque progetto di ‘contenimento’ deve essere attuato nel rispetto della norma”.
E la norma sul maltrattamento?[20]
“L’art 544 bis c.p. punisce le uccisioni di animali non necessitate o con crudeltà, con la reclusione sino a due anni, mentre l’art 544 ter c.p. punisce il maltrattamento, anch’esso non necessitato o cagionato con crudeltà. La Corte di Cassazione, sin dal 2005 proprio con una sentenza in materia venatoria, ha chiarito che il maltrattamento è pienamente applicabile anche alla fauna selvatica, quando sono compiute condotte non espressamente previste dalla normativa di riferimento (legge 157 del 1992) anche se non sono espressamente vietate (Cassazione Penale, Sez. III, 21/12/2005 sentenza n. 46784, Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 6 – 26 marzo 2012, n.11606, Corte di Cassazione n 16497 28 febbraio 2013). Dal quadro normativo sopra citato, la prima conseguenza in via preliminare che si trae è che sono da ritenersi illegittimi tutti quei provvedimenti amministrativi che non prevedono la preventiva verifica della non effettività dei metodi di controllo non cruenti (cfr. su tutte, CdS VI ord. 6.2.07 n.727) in quanto il disposto di cui all’art.19 della legge quadro deve intendersi di stretta interpretazione e per poter addivenire legittimamente all’approvazione di controllo, è necessario esperire due distinti passaggi procedimentali: esperire metodi di contenimento non cruenti, laddove gli stessi, dopo essere stati sottoposti al vaglio dell’ISPRA, dovessero risultare inefficaci, è possibile ricorrere a metodi non ecologici, sempre su nuovo parere dell’Istituto.
Analogamente, i danni causati dalla volpe devono essere chiaramente comprovati e certamente non possono limitarsi al possibile disturbo delle specie di interesse venatorio, perché la norma di riferimento (art 19 citato) non lo prevede. Una violazione di tali principi potrebbe comportare responsabilità amministrative e finanche penali per chi deliberatamente approvi tali provvedimenti amministrativi in assenza dei requisiti previsti dalla norma. Inoltre attuare condotte che non sono espressamente previste e consentite dalla normativa speciale sulla fauna selvatica in tema di contenimento e che oggettivamente causano strazio e sevizie agli animali, può integrare il delitto di maltrattamento ed uccisione di animali.
I piani di abbattimento di volpi attuati durante il periodo riproduttivo mediante la modalità di caccia alla tana, con l’impiego di cani, paiono entrare appieno in tale seconda conseguenza.
Infatti seppur in teoria, ovvero sulla carta, tali piani dovrebbero prevedere in genere che i cani c.d. ‘specializzati’ si limitino a stanare gli animali nelle tane per poi farli sopprimere dai soggetti a ciò preposti a colpi di arma da fuoco, la realtà è logicamente del tutto difforme giacché la concreta attuazione di questa procedura prevede la morte degli animali spesso per sbranamento, nonché la morte dei cuccioli abbandonati nelle tane per inedia o anch’essi sbranati dai cani. Non essendo consentita ai sensi della legge n. 157 del 1992 che disciplina la tutela della fauna selvatica in ambito nazionale, la morte degli animali per sbranamento o, peggio, per inedia dei cuccioli presenti nelle tane che lì potrebbero rimanere senza essere curati, qualora le femmine siano poi soppresse, è ipotizzabile il delitto di maltrattamento e uccisione con crudeltà non necessitati, in quanto le modalità con cui sarebbero uccisi gli animali, ovvero mediante caccia nella tana tramite cani, cagionerebbero illecite lesioni e danni alla salute degli stessi, in palese violazione di quanto disposto dalla normativa penale a tutela degli animali, art. 544 bis e 544 ter c.p., in quanto i cuccioli potrebbero essere o sbranati dai cani o, peggio, morire per inedia a causa dell’uccisione delle madri, in contrasto al dettato normativo di riferimento.
A tale proposito, in una Ordinanza del 2014 (28/2014 rg gip) il Giudice per le Indagini Preliminari di Ferrara, a proposito della caccia alla volpe ‘in tana’ osserva: «è una modalità che spesso comporta l’uccisione dei cuccioli per sbranamento o per inedia. Non è chi non veda o non reputi che tale modalità di uccisione dell’animale e dei suoi cuccioli sia estremamente crudele e provochi all’animale sofferenze prima del sopraggiungere certo della morte; in questa parte sono pienamente condivisibili le osservazioni della Lega Anti Vivisezione»”.
La realtà della caccia in tana[21]
“Nella pratica, la modalità di caccia alla volpe cosiddetta ‘in tana’ emerge prepotentemente per la sua particolare violenza e crudeltà.
La sua diffusione deriva dal fatto che essa consente di ottenere la massima efficacia ed efficienza dei piani di contenimento, uccidendo i cuccioli quando sono ancora dipendenti dalle cure parentali. È infatti sufficiente individuare una tana per potersi garantire l’uccisione di tutti i suoi occupanti, senza dover necessariamente vagare per le campagne nella speranza di incontrare qualche volpe adulta. Tale metodologia di caccia è particolarmente cruenta e causa di atroci sofferenze per gli animali. In alcuni casi, vengono addirittura utilizzate pale meccaniche per poter portare alla luce la tana ed i suoi occupanti terrorizzati, di lì a poco destinati a cadere sotto i colpi dei fucili. Normalmente, invece, si utilizzano cani di piccola taglia che riescono ad infilarsi nella tana dove incontreranno la madre in compagnia dei piccoli. Superfluo dire che ne nascerà uno scontro violentissimo: da una parte un cane addestrato per fare scappare le volpi incontrate in tana, costringendole verso le uscite alternative e quindi destinandole ai fucili dei cacciatori, dall’altra una madre che, come qualsiasi madre mammifero, umano compreso, sarà disposta a dare la propria vita pur di difendere i suoi piccoli. Dallo scontro il cane uscirà ricoperto dalle ferite di una madre volpe impegnata in una difesa disperata fino alla morte, mentre i cuccioli che non saranno stati sbranati dal cane, privati delle indispensabili cure parentali, saranno destinati ad una lenta morte per inedia.
Il risultato è una vera e propria carneficina, non scriminata dalla Legge speciale”.
Caccia al cinghiale
Il cinghiale brutto e cattivo non viene semplicemente ucciso. Talvolta viene letteralmente (e illecitamente) torturato.
In alcune tecniche di caccia viene inseguito fino allo sfinimento dai cani che lo conducono dritto contro il plotone d’esecuzione: più cani ad inseguirlo, più cacciatori a sparargli contro … tutti contro uno, davvero uno sport nobile!
Altri modi di cacciare prevedono che i cani non solo scovino il cinghiale ma lo attacchino, lo mordano e lo immobilizzino finché non arriva il cacciatore che lo finisce con uno sparo, sempre se è così gentile da porre fine subito alle sofferenze del selvatico. Non mancano, infatti, video sul web in cui i cacciatori si gustano lo spettacolo offerto dai propri cani che mordono e straziano la fiera. Li guardano e non li fermano. Vedono il cinghiale soffrire, date le ferite; lo vedono disperato scalciare più per istinto che per una ormai impossibile salvezza. Guardano, filmano, ne parlano, si compiacciono e neanche un minimo senso di pietà li pervade, tanto assetati sono di sangue, tanta è la loro gioia di aver preso un cinghiale. I cani che attaccano il cinghiale sono bene addestrati a farlo. Sanno bene dove mordere per far più male e per neutralizzare il malcapitato.
Se fin qui si è trattato di pratiche lecite moralmente discutibili o che sfociano in maltrattamenti, adesso si tratterà brevemente di una tecnica di caccia al cinghiale diffusa e atroce, totalmente illegale: il laccio.
Si tratta di una trappola cruenta che non lascia scampo alla povera vittima. Un laccio di acciaio, posizionato a mo’ di cappio nei punti di passaggio degli animali selvatici (ad es. nei “sentieri” che conducono ai corsi d’acqua). Quando l’incolpevole fauna transita da quel punto, sentendosi stretto il collo, si dimena, causando il maggior stringimento del laccio. L’animale morirà dopo ore di agonia, tra dissanguamento e soffocamento.
Come vengono addestrati i cani per attaccare il cinghiale?
Sebbene non si possa generalizzare, non si può non segnalare il caso di un cacciatore di Pitigliano (GR) protagonista di fatti avvenuti nel 2018 per i quali è stato condannato con emissione di un decreto penale divenuto esecutivo “perché per crudeltà o comunque senza necessità sottoponeva un cucciolo di cinghiale a sevizie e stress, incompatibili con le proprie caratteristiche etologiche, legandolo per una garretto al fine di addestrare i cani da caccia di sua proprietà”[22].
Appaiono del tutto fondati i dubbi espressi dalla LAC: “E’ terribile quanto accade agli animali utilizzati per addestrare i cani da caccia. Per l’addestramento cani da caccia, si utilizzano diverse specie di fauna, dai cinghiali, alle lepri, alle volpi, all’avifauna appositamente allevata. Per tutti una condizione di stress e sofferenza fino alla morte”.[23]
Animali domestici
Fra i competitor dei cacciatori ecco spuntare a sorpresa gli animali domestici. Sì, proprio loro, micidiali predatori naturali che disturbano l’attività venatoria: allontanano la cacciagione o la uccidono o, comunque, disturbano il gioco dei cacciatori. Come poter continuare a praticare indisturbati lo “sport” della caccia, dunque? Alcuni cacciatori hanno trovato una soluzione definitiva alla questione: li uccidono. Già, è semplice, gli si spara o li si avvelena con bocconi avvelenati. Purtroppo il fenomeno è “assai diffuso e ben documentabile”.[24]
Strumenti illeciti di caccia che provocano grandi e ingiuste sofferenze agli animali
Il desiderio di uccidere la fauna selvatica, per molti, non conosce limiti. Spargimento di piombo e cartucce, danni diretti (ferimento e uccisione) o indiretti (saturnismo) di esemplari protetti, inquinamento di terreni e zone umide, rischio ferimento o uccisione di uomini, uso di congegni illeciti per la cattura degli animali. Tra questi ultimi, si annoverano:
- archetti: trappole per la cattura di piccoli uccelli. Quanto l’uccello si posa sull’esca, viene intrappolato per mezzo del congegno a scatto. Gli uccelli intrappolati rimangono appesi per ore ad agonizzare, con i tarsi spezzati dall’archetto;
- trappole e cappi;
- reti verticali in cui gli uccelli (indistintamente dalla specie) rimangono impigliati e muoiono dopo una lunga agonia;
- gabbie trappola: strutture in legno o metallo, dotati di una porta a ghigliottina chiusa da un meccanismo a scatto attivato da un’esca alimentare posizionata all’interno.
Illeciti
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- La “malacaccia”: fattore di rischio per la biodiversità
Uno studio condotto dal CABS (Committee Against Bird Slaughter) in collaborazione con le principali associazioni ambientaliste italiane ha evidenziato quale impatto sulla biodiversità abbia la caccia illegale praticata da cacciatori e bracconieri. I risultati di tale studio sono confluiti nei documenti “Calendario del cacciatore bracconiere”. Nel censimento delle condotte illecite, gli autori dello studio hanno inteso porre in rilievo solo quelle che realmente e direttamente hanno arrecato danno alla biodiversità (es.: infrazioni o reati relativi all’abbattimento di specie protette, caccia in aree protette, ecc.) e non anche ipotesi di infrazioni amministrative (es.: mancata annotazione della giornata, caccia a distanza ravvicinata da case e strade, ecc.).
Qui di seguito si riporta uno specchietto riepilogativo degli esiti degli studi condotti relativamente alle stagioni venatorie 2013/14 [25], 2014/15 [26] e 2015/2016 [27].
| Periodo oggetto di studio | dal 01.02.13 al 31.01.14 | dal 01.02.14 al 31.01.15 | dal 01.02.15 al 31.01.16 | dal 01.02.19 al 31.01.20 | dal 01.02.20 al 31.01.21 |
| Numero dei casi
|
|||||
| – crimini rilevanti contro la fauna selvatica | 548 | 706 | 596 | 434 | 515 |
| – persone coinvolte | 1.133 | 1.594 | 1.324 | 1.147 | 921 |
| Categoria di fauna colpita
|
|||||
| – uccelli | 70 % | 67 % | 68 % | 59 % | 63 % |
| – mammiferi | 30 % | 23 % | 26 % | 25 % | 29 % |
| – uccelli e mammiferi | 9 % | 6 % | 3 % | 3 % | |
|
|
|||||
| Tipologia di illecito
|
|||||
| – uso di richiami elettromagnetici | 20,6 % | 21 % | 14 % | 17 % | 16 % |
| – abbattimento di specie particolarmente protette | 20,3 % | 26 % | 26 % | 29 % | 29 % |
| – abbattimento di specie protette | 6 % | 12 % | 5 % | 9 % | |
| – caccia in zona di divieto | 11,4 % | 8 % | 7 % | 7 % | 6 % |
| – caccia in periodo di divieto | 10,2 % | 14 % | 14 % | 11 % | 13 % |
| – uccellagione | 7,1 % | ||||
| – caccia notturna | 6,4 % | 3 % | 3 % | 1 % | 2 % |
| – caccia con fucili alterati (con più di tre colpi o con matricola abrasa o con silenziatore o altro) | 5,3 % | 3 % | 2 % | 3 % | 2 % |
| – lacci/trappole/tagliole | 4,3 % | 18 % | 17 % | 17 % | 17 % |
| – caccia da veicoli | 1,4 % | ||||
| – limite massimo | 0,9 % | ||||
| – richiami illegali | 0,8 % | 3 % | 4 % | 8 % | 3 % |
| – veleno | 0,6 % | ||||
| Responsabili
|
|||||
| – cacciatori (provvisti di licenza o che l’hanno avuta in un recente passato) | 80,6 %
|
78 %
(1.241 cacciatori) |
77,8 %
(1.030 cacciatori) |
63 %
(747 cacciatori) |
64 % |
| – persone senza licenza di caccia (“bracconiere puro”) | 15,5 % | 19 %
(311 bracconieri) |
19 %
(251 bracconieri) |
34 %
(400 bracconieri) |
27 % |
| – ignoti | 3,9 % | 3 % | 3,2 % | 3 % | 9 % |
| Periodo
|
|||||
| – illeciti commessi durante la stagione venatoria | 80 % | 78 % | 78,4 % | 72 % | 74 % |
| – illeciti riscontrati a stagione venatoria chiusa | 20 % | 22 % | 21,6 % | 28 % | 26 % |
Conclusioni dello studio contenuto nel documento “Calendario del cacciatore bracconiere 2013/2014”
“Dal campione preso in analisi nel presente studio emergono numerose criticità, legate alla gestione della caccia e alla lotta al bracconaggio in Italia. Il fatto che più dell’ 80% dei reati venatori più gravi vengano compiuti da cacciatori veri e propri (spesso salta all’occhio nelle cronache come si tratti anche di esponenti delle istituzioni, o rappresentanti delle più importanti associazioni venatorie nazionali) dimostra come il fenomeno della “malacaccia” sia endemico e “istituzionalizzato” in Italia: non vi è una percezione diffusa del danno arrecato dal bracconaggio al patrimonio naturale collettivo e in questo senso non vengono prese né dalle amministrazioni, né dalla politica delle misure – culturali e giuridiche – volte a contrastare efficacemente il bracconaggio o a isolare i bracconieri. Non è un caso che tutti i tentativi di cambiamento delle leggi sulla caccia succedutisi negli ultimi anni sono stati volti a depenalizzare i reati e allargare le maglie delle norme, piuttosto che a rendere efficaci i sistemi di controllo e di repressione dell’illegalità. La connessione fra caccia e illegalità è sottolineata dal fatto che l’81% dei reati venatori vengano commessi durante la stagione di caccia, fatto che spiega l’avversione da parte delle associazioni di protezione dell’ambiente per ogni ipotesi di estensione della stagione di caccia: durante la stagione di caccia, i reati aumentano esponenzialmente […]”[28].
L’Italia è il secondo “Stato Canaglia” del Mediterraneo per l’uccisione illegale di uccelli[29]
È ragionevole ipotizzare che il fenomeno della caccia illegale e del bracconaggio sia molto più ampio di quanto possa emergere dagli studi condotti dal CABS e, quindi, molto più importanti potrebbero essere gli effetti dannosi sulla biodiversità. Ciò lo si evince proprio dagli studi effettuati dal CABS e contenuti nei documenti “Calendario del cacciatore bracconiere” ove viene posto più volte l’accento sulla carenza dei controlli da parte delle Istituzioni sull’attività venatoria e sulla mancata applicazione della disposizione prevista dall’art. 32 della L. 157/92, che richiede un resoconto annuale della vigilanza sul territorio nazionale in riferimento alla raccolta di informazioni sul fenomeno del bracconaggio.
“L’Italia è il paese dove del fenomeno della caccia e del bracconaggio non si sa quasi nulla: non si sa esattamente quanti siano i cacciatori, quanti reati vengano commessi, non si sa quanta vigilanza intervenga e con quali risultati, né quanti esemplari siano abbattuti ogni anno legalmente o illegalmente. Per ovviare a questa mancanza di informazioni, e in risposta al PILOT 5283/13/ENVI, l’Italia ha approvato il 30/03/2017 un Piano d’azione nazionale per il contrasto degli illeciti contro gli uccelli selvatici. Conseguentemente nel maggio 2018, 2019 e 2020 sono stati rilasciati da ISPRA e dal CUFA tre rapporti sull’esecuzione dello stesso piano”[30].
“Nei tre mesi di massima migrazione degli uccelli fra settembre e novembre sono stati perpetrati e riscontrati il 55% di tutti i reati commessi nel corso dei 12 mesi, a dimostrazione del fatto che il bracconaggio in Italia sia ancora legato alla caccia alla migratoria, ovvero si sviluppi quando si ha l’opportunità di catturare o abbattere numerose quantità di uccelli”[31]. Tale circostanza rappresenta un reale ed importante fattore di rischio per la biodiversità, “che andrebbe limitato e controllato il più possibile, in modo da disinnescarne la pericolosità, tanto più se si considera l’importanza che ha la nostra penisola sia come canale migratorio per l’avifauna di buona parte del continente europeo, sia per ospitare popolazioni uniche di mammiferi come il camoscio d’Abruzzo, l’orso marsicano, il cervo sardo”[32].
Sulla gravità ed estensione del fenomeno del bracconaggio non lascia dubbi il comunicato stampa dell’ISPRA, del 10.06.2016, dall’eloquente titolo “LOTTA AL BRACCONAGGIO – Individuate in Italia almeno 7 aree “calde” dove intervenire per contrastare l’uccisione illegale degli uccelli selvatici”.

I black-spot dove l’attività di bracconaggio nei confronti degli uccelli è più intenso (fonte Ispra)
Ghiri: una caccia illecita e diffusa di una specie a rischio estinzione
Il ghiro è un piccolo e simpatico roditore che rientra fra le specie protette. Di giorno preferisce rimanere nascosto per uscire dopo il tramonto e rincasare prima dell’alba. Va matto per frutti e semi del bosco (noci, nocciole, ghiande, castagne, semi di pino, lamponi, more, ecc.), ma non disdegna insetti e uova d’uccelli. È un animaletto che in autunno aumenta molto di peso poiché gli serve accumulare riserve per il letargo invernale che dura circa 6 mesi. Vive prevalentemente nei boschi tra i 600 e i 1.500 metri. La sua simpatia e il fatto di essere annoverato tra le specie protette, purtroppo, non lo salvano dalla mano del cacciatore. Talvolta viene catturato con trappole poste sugli alberi dei cui frutti è ghiotto (castagne, nocciole, ghiande); talaltra viene abbagliato dalle forti luci montate sui fucili dei cacciatori che, una volta che la piccola vittima si immobilizza accecato dalla forte luce, lo finiscono senza difficoltà.
Come se non bastasse, in alcuni ambienti malavitosi lo sventurato ghiro rappresenta una vera prelibatezza, immancabile boccone nei banchetti dei clan, segno di rispetto per i boss. Ed allora ecco le notevoli scorte di ghiri, vivi e morti, accantonati per le “grandi” occasioni. Prova di tale “rituale” ne sono i vari sequestri di ghiri operati dalle Forze dell’Ordine nel corso delle perquisizioni.
La sopravvivenza del ghiro è già fortemente minacciata dagli incendi che distruggono le loro tane e le loro fonti di sostentamento. La caccia a questa bestiola può decretarne l’estinzione, tra il silenzio di molti.
Reggio Calabria, i carabinieri sequestrano 235 ghiri congelati e pronti al ‘consumo’: è il cibo delle ‘mangiate’ di ‘Ndrangheta[33]
“Sono specie protetta, considerata non idonea al consumo alimentare. Ma nella tradizione dei clan, sono anche la portata principale delle “mangiate” di ‘Ndrangheta, segno di riguardo e rispetto per capi o aspiranti tali. Duecentotrentacinque ghiri, porzionati, congelati e pronti ad essere cucinati, altri, chiusi in una gabbia a ingrassare prima di essere macellati, sono stati trovati dai carabinieri in un’abitazione nei pressi di Delianuova.
Non si tratta della prima volta che gli investigatori si trovano di fronte a simili “scorte”. Delianuova poi è una delle quattro zone del reggino in cui più diffusa è la caccia illegale ai piccoli roditori, che nelle aree aspromontane e pre-aspromontane della Locride ha il suo cuore. Un rito arcaico, che resiste a multe e divieti e torna spesso nelle chiacchierate fra uomini dei clan intercettate dagli investigatori. Per “na mangiata i ghiri”, fra “roba rrustuta” e “pasta cu sucu”, si incontravano i narcos degli Aquino-Coluccio e i Commisso per organizzare l’importazione di tonnellate di coca dall’America Latina, ma è capitato anche che i piccoli roditori venissero contrabbandati anche dietro le sbarre. Lo racconta il pentito Andrea Mantella, parlando del suo rapporto con il boss di San Gregorio di Ippona, Saverio Razionale. “Nel 1999, quando eravamo in carcere insieme, ci incontravamo tutti i giorni, perché eravamo nella stessa sezione. Eravamo sempre insieme. Eravamo con Pietro Portolesi di Platì, Giovanni Morabito e altri. Ricordo che i platioti ci facevano mangiare i ghiri e lui che li schifava li metteva nel mio piatto per non fare brutta figura”. Del resto, sempre topi sono, per di più dall’odore pestilenziale se cucinati. Ma in quella parte di ‘Ndrangheta militare che ancora si ammanta di tradizioni arcaiche per nascondere la propria vera natura, a certi “manicaretti” non si può dire di no”.
Cacciatori o bracconieri?
Ben sappiamo chi sono i cacciatori, ovvero coloro che, in forza di una regolare licenza di caccia, sono legittimati al prelievo di alcune specie di fauna selvatica, nei tempi e nei modi previsti dalla legge. Ma chi è il bracconiere? È colui che non possiede la licenza di caccia o può definirsi bracconiere anche il cacciatore (munito, quindi, di regolare titolo) che viola i dettami normativi in tema di protezione di fauna selvatica e prelievo venatorio?
Nel mondo della caccia si è particolarmente attenti a distinguere le figure di “cacciatore” e “bracconiere”. Non si tratta di una mera puntualizzazione fine a sé stessa ma un voler definire con chiarezza che i cacciatori non violano le leggi. A dire delle associazioni venatorie, infatti, i bracconieri sono coloro che trasgrediscono le disposizioni di legge in materia venatoria, a prescindere dal possesso della licenza di caccia. Questa distinzione tout court è dettata dall’esigenza di stabilire una dissociazione totale dei cacciatori dall’illegalità, ammantando così i “veri” cacciatori di un velo di assoluta legalità. Se in linea di principio tale atteggiamento potrebbe apparire nobile e condivisibile, nella realtà, il tutto sembra più uno stratagemma per tutelare l’immagine della caccia, che già non gode dei favori di gran parte della popolazione. Il gioco è semplice: Tizio è un cacciatore ma nel momento in cui contravviene alle regole diviene “bracconiere”. Così facendo, non solo si garantisce l’immagine del mondo della caccia ma si evidenzia anche un certo senso civico nel condannare l’illegalità.
La distinzione andrebbe bene se nel nostro Paese i controlli venatori fossero svolti con serietà e se le norme italiane svolgessero una funzione deterrente. “Sei un cacciatore, vieni sorpreso a violare la legge e passi dall’altra parte, perdendo la licenza di cui godevi”. Purtroppo la realtà è ben diversa: quelle poche centinaia di persone che ogni anno vengono colte in flagranza di reato (e che dal 2015 continuano drammaticamente a diminuire, secondo i dati del CABS) non sono che la punta di un iceberg e costoro, si badi bene, continuano a mantenere, salvo limitatissimi casi, la licenza di cui godevano precedentemente. E la condanna del bracconaggio da parte del mondo venatorio, da sempre arroccato in una difesa corporativa della categoria, resta solo di facciata. Sul bracconaggio le associazioni continuano a mantenere un’ambiguità di fondo, che si spiega con il timore di perdere consensi tra gli associati, quindi assicurazioni e tessere a favore delle altre associazioni che dovessero avere una posizione meno dura. Da qui, addirittura, le proteste di piazza laddove i controlli, a loro dire, si fanno troppo stringenti, com’è avvenuto a Brescia nell’ottobre del 2021.
Troppo comodo accompagnarsi oggi con chi, all’occorrenza, si disconoscerà.
Tra l’altro, i dati sono inequivocabili. Analizzando quelli riportati al paragrafo 3.1 “La “malacaccia”: fattore di rischio per la biodiversità” ben si potrà notare come la maggior parte delle condotte illecite in ambito venatorio siano commesse proprio da coloro che sono muniti di licenza di caccia, i cacciatori!)!
In fin dei conti, se è vero (come è vero) che non tutti i cacciatori sono bracconieri, d’altro canto è vero che la maggior parte dei bracconieri sono cacciatori.
“Una prova inconfutabile dell’interrelazione tra bracconaggio e caccia è rappresentata dal massiccio aumento dei ricoveri di animali protetti, soprattutto uccelli rapaci, in coincidenza del periodo dell’attività venatoria e dalla rilevante incidenza percentuale delle ferite da fucile da caccia come causa di ricovero nei diversi centri di recupero di fauna (solitamente gestiti da associazioni protezionistiche o amministrazioni provinciali): basta scorrere i lunghi elenchi redatti in questi centri per capire che non c’è specie animale che possa ritenersi al sicuro (WWF Italy, 2014)”[34].
4. Incidenti di caccia e danni collaterali
Gli animali colpiti
Quando si pensa agli animali attinti dai colpi dei cacciatori, il pensiero corre subito alla fauna selvatica cacciabile o protetta. Nella realtà, le cronache ci rilevano che anche altre sono le vittime della caccia per via di incidenti che ricorrono prima, durante e dopo le attività venatorie. Oltre alle gravi e ormai prevedibili sciagure cui si assiste ad ogni stagione venatoria, esiste un corollario di ulteriori effetti collaterali che accompagnano l’esercizio della caccia e che ricadono talvolta sui bambini e sugli animali domestici.
L’uomo … e i suoi cuccioli
“Il punto di avvio è la constatazione che l’attività venatoria consiste in null’altro che nel libero uso di armi da fuoco da parte di dilettanti in luoghi non protetti, ovvero che sua principale e intrinseca caratteristica è la totale promiscuità di spazi con le altre attività umane, sia lavorative (agricoltura e silvicoltura innanzi tutto) che ludiche (escursionismo ecc.). E’ chiaro pertanto che il problema della sicurezza e della tutela della pubblica incolumità è da considerarsi primario in qualsiasi trattazione che abbia come oggetto la caccia.
Con riferimento ai dati del 2001 si è calcolato che si verifica un incidente mortale sul lavoro ogni 3.500.000 circa giornate lavorative e almeno un incidente mortale di caccia ogni 550.000 circa giornate di caccia. Ne risulta, dal rapporto fra tali cifre, che si muore di caccia almeno 6,4 volte più frequentemente che sul lavoro. Inoltre, la probabilità che un incidente di caccia abbia esito mortale è 297 volte maggiore che negli incidenti sul lavoro”[35].
Secondo i dati raccolti e pubblicati dall’Associazione “Vittime della caccia”, la stagione venatoria 2021/2022 ha mietuto 90 vittime tra gli uomini: 24 morti e 66 feriti[36].
- 72 incidenti sono avvenuti in ambito venatorio; gli altri 18 in ambito extravenatorio.
- 55 sono vittime tra i cacciatori: ne sono rimasti uccisi 12, mentre 43 sono i feriti.
- 35 sono, invece, le vittime tra i non cacciatori: 23 feriti (di cui 19 in ambito venatorio) e 12 sono periti in ambito extravenatorio (vittime di uxoricidi, raptus, detenzione incauta di fucili da caccia, persine ad opera di minori).
Vale la pena di sottolineare che i dati degli incidenti di caccia riportati si riferiscono ai 4/5 mesi di attività venatoria, non all’interno anno. In tale senso, l’entità del bollettino assume ulteriore grave rilievo.
Purtroppo, la stagione venatoria trascorsa non ha rappresentato un unicum; è stata, invece, la solita annunciata mattanza. Le cause potrebbero essere ricercate nella imperizia nel maneggio delle armi, nel mancato rispetto di distanze e procedure di sicurezza. Ancora, però, le cause potrebbero essere ricercate nella predisposizione individuale di alcuni cacciatori in relazione alla gestione dello stress, alla capacità di controllare le reazioni istintive, all’attitudine di gestire al meglio le relazioni interpersonali, al rispetto di ciò che li circonda, anche con riferimento ai fondi altrui, oltre che agli animali domestici e ai propri cani che, come viene spesso denunciato, vengono uccisi per gioco o convenienza o in preda a raptus.
Andare a funghi o fare un’escursione o andare in bici o semplicemente stare nel proprio terreno, può diventare fatale. Fatali sono state queste semplici attività sportive o di svago per troppe persone.
Alla pagina web dell’Associazione “Vittime della caccia” https://www.vittimedellacaccia.org/avcdossier-2020-2021-bollettino-della-guerra-vittime-umane/ è riportato il triste “Bollettino” degli incidenti di caccia avvenuti nel corso della passata stagione venatoria
Come se non bastasse il prezzo in termini di vite umane …
Sempre secondo la citata Associazione, 35 sarebbero stati gli interventi di elisoccorso necessari per gli incidenti di caccia. Il che, come ben evidenziato, ha comportato spiegamento di mezzi, uomini e denaro.
Piccole, incolpevoli e inconsapevoli vittime
Potrebbe non essere del tutto peregrina l’idea di poter annoverare tra le vittime della caccia anche quei bambini che in qualche modo vengono avvicinati al mondo venatorio. Taluni, è risaputo, vengono portati durante le battute, vedono come viene ucciso un essere indifeso, si abituano a quelle immagini, al sangue; altri sono introdotti al maneggio o, addirittura, all’uso delle armi.
Un processo di assuefazione alla crudeltà, al mancato rispetto della natura (spargimento di piombo e cartucce), una normalizzazione dell’eccezione. Ciò che farebbe inorridire un adulto, alcuni bambini lo vivono con gioia.
Gli animali domestici.
Gli animali domestici rientrano tra quelle vittime più o meno accidentali causate dalla caccia. Per le implicazioni che l’attività venatoria ha sugli animali d’affezione si rimanda al paragrafo 2.5.
La fauna protetta
La legge 157/92 “Norme per la protezione della fauna omeoterma e prelievo venatorio” da un lato prevede una serie di dettati nomativi volti alla protezione della fauna selvatica, dall’altro disciplina l’attività venatoria, regolandone le modalità di svolgimento al fine di non esporre la fauna tutelata. In teoria, ovviamente. Nella realtà dei fatti, invece, proprio la caccia determina sul campo conseguenze nefaste per la fauna selvatica che si intende tutelare: “incidenti” di caccia (con uccisione o ferimento), uccisioni indirette (saturnismo; infarti per i colpi esplosi), ferimenti indiretti (durante la fuga, per via dei colpi uditi), disturbo.
L’esistenza stessa della caccia, poi, facilita il fenomeno del bracconaggio con conseguente aggravio sulla fauna protetta. Durante una battuta di caccia, in assenza di controlli, è possibile che qualche cacciatore possa violare le regole, prelevando specie tutelate o accedere a zone protette o eccedere nel numero di capi abbattuti. Inoltre, la regolare disponibilità di fucili e munizionamenti facilita l’uso di questi strumenti in periodi di divieto di caccia.
“Durante l’esercizio dell’attività venatoria sussiste, effettivamente, il rischio di ferimento o abbattimento accidentale di specie di interesse comunitario. Ciò può verificarsi in conseguenza di involontari errori di tiro o di determinazione dell’esemplare considerato (che potrebbe essere scambiato con una specie cacciabile). Errori simili possono essere correlati alla visibilità, alla formazione e all’esperienza del cacciatore; ma anche al tipo di arma utilizzata e alla presenza contemporanea sul posto sia di specie cacciabili che di interesse comunitario”.
“L’inseguimento, o la cerca ed individuazione, possono quindi avere per oggetto anche specie tutelate dalle Direttive Habitat ed Uccelli, e possono provocare disturbo nei confronti di tali entità o, nel peggiore dei casi, il ferimento o l’uccisione degli individui inseguiti/scovati”[37].
La flora e l’ambientalismo selettivo
Gli escursionisti vengono educati a non lasciare mai il sentiero. Non si tratta solo di una questione di sicurezza, per evitare di perdersi nel bosco o per non rischiare di trovarsi in luoghi in cui sussiste un pericolo caduta sassi o dal terreno instabile. L’attenzione non è rivolta solo all’incolumità del viandante ma è rivolta anche al rispetto dell’ambiente che lo circonda. Più consapevolmente, infatti, si sta tutelando il luogo che ci ospita, le sue caratteristiche e le sue fragilità. I sentieri tracciati tengono in conto tanto la questione sicurezza quanto il rispetto dell’ambiente. Andar fuori sentiero può voler significare calpestare germogli, ostacolare la ricrescita o il rinnovamento vegetativo in una zona che, magari, avrebbe necessità di rinvigorirsi. Gli escursionisti non possono. I cacciatori con i loro fidi cani possono, invece, fare scorribande ovunque, persino nei terreni privati. L’art. 842 del Codice Civile consente infatti ai cacciatori l’accesso ai fondi privati che non presentino le caratteristiche di “fondo chiuso”, un privilegio di cui non può godere nessun’altra categoria di cittadini.
Chi pensasse di attaccare una puntina da bacheca ad un albero, per fissare nulla di più che un foglio per un semplice gioco, potrebbe essere raggiunto da un forte rimbrotto: gli alberi non si toccano, non si mettere una puntina neanche per pochi minuti. Poi, però, gli alberi vengono investiti da migliaia di pallini e pallettoni di piombo nel silenzio generale.
In tal senso, viene da chiedersi come possa coesistere l’animo ambientalista con quello venatorio. Nelle uscite escursionistiche, il cacciatore la pensa da trekker. Il giorno seguente, però, i nobili canoni si dissolvono allorquando egli indossa gli abiti coi superpoteri da Rambo: ora tutto gli è concesso, può agire indisturbato dagli uomini e dal proprio ambientalismo. Curioso appare anche l’atteggiamento generale ambientalista: vigile e sempre pronto a riprendere il trekker in errore; distratto verso le attività dai cacciatori.
Sembra di trovarsi al cospetto di una forma di “ambientalismo selettivo”: alla massima tutela della vegetazione in genere (e di alberi in particolare) quanto si parla di escursionismo fa da contraltare un curioso silenzio quando si parla di caccia.
Altri effetti collaterali: incolumità, disturbo alla quiete pubblica, procurato allarme sociale e danneggiamento cose mobili e immobili
Del rischio “incolumità” fisica dell’uomo derivante dall’attività venatoria si è già trattato al paragrafo 1 del presente capitolo. I problemi per l’uomo, però, non finiscono lì. Vi sono, infatti, altre negative implicazioni della caccia sui cittadini che assumono particolare rilievo nella misura in cui condizionano pesantemente il vivere quotidiano, modificando abitudini e stati d’animo.
Proprio per l’invasività dell’attività venatoria, sempre più sono i cittadini che producono istanze ai propri sindaci volte all’emissione di ordinanze che vietino la caccia in una determinata zona[38]. Le questioni che maggiormente vengono evidenziate nelle predette richieste afferiscono l’ambito dell’incolumità, del disturbo alla quiete pubblica e del procurato allarme sociale. Infatti, ai cacciatori vengono attribuite una serie di condotte moleste, tra cui: mancato rispetto di distanze da case e strade, violazione di domicilio, minacce e offese, mancata raccolta dei bossoli, danneggiamento di cose mobili o immobili, disturbo della quiete e del riposo (segnalando spari già all’alba), danni alle colture a agli alberi anche con frutti pendenti, cani dei cacciatori che circolano incustoditi nelle immediate pertinenze delle abitazioni private ed altro.
Appare del tutto evidente come i cittadini che si trovino a vivere situazioni simili (e neanche infrequenti) siano sottoposti ad uno stress particolarmente rilevante. Subire gli effetti di quelle condotte, aver paura di contestare quelle azioni a gente sconosciuta ed armata, il timore di ritorsioni, i danni patiti, il riposo interrotto dagli spari, non può che avere riflessi sulla serenità del vivere quotidiano. Il “divertimento” dei cacciatori, può giustificare tutto ciò?
… e la lista continua: il turismo e le attività ricreative ed escursionistiche
La lista degli effetti “collaterali” della caccia sull’uomo sembra non aver fine.
Quante volte è capitato durante un’attività in montagna (escursione, raccolta funghi, passeggiata in famiglia) di venir scossi dall’improvviso scoppio più o meno ravvicinato di colpi di fucile! Di nuovo riaffiora il tema dell’incolumità. In quel momento i cacciatori non sanno della presenza degli escursionisti e sappiamo quanti “incidenti” di caccia siano avvenuti nel tempo allorquando umani siano stati feriti o uccisi perché scambiati per animali durante le battute di caccia. Oltre alla questione dell’incolumità, emerge anche quella del diritto di fruire della natura in maniera serena. Da quello sparo tutto cambierà. La spensieratezza e la felicità, il godimento della natura, l’osservazione delle bellezze, cederanno il passo a paura, preoccupazione, urla per farsi sentire dai cacciatori, cambiamenti di programma sul continuare il percorso, modificarlo o rinunciare definitivamente. Perché? La natura è di tutti e tutti dovrebbero poterne fruire liberamente, con rispetto per gli uomini e per l’ambiente.
Effetti negativi della caccia si ripercuotono anche sul turismo, vista la crescente sensibilità delle persone sui diritti degli animali, contro le pratiche violente ai loro danni. La corrida in Spagna, i combattimenti fra galli nella Repubblica Dominicana, la caccia alle balene in Islanda sono state oggetto del cosiddetto “boicottaggio turistico”. “Anche in Italia, alcuni operatori del settore hanno registrato mancate prenotazioni per effetto dell’attività venatoria”[39].
Nel dossier “Aiutateci a diventare civili – Analisi del rapporto tra attività venatoria italiana e potenziali danni al turismo” (maggio 2004) redatto dallo Staff di “Caccia il Cacciatore” possono leggersi alcune significative lettere ricevute da hotel, agriturismi e tour operator o inviate da potenziali turisti e associazioni animaliste per avere una più chiara percezione di quali possano essere gli effetti della caccia sul turismo.
Si riporta il testo integrale di una lettera scritta da un gestore di hotel: “Egregi Signori, Vi segnaliamo delle lamentele pervenuteci da affezionati clienti, causa disturbo della quiete pubblica, provocata da evidenti spari di cacciatori. Il nostro hotel, infatti, inserito in una verde e boscosa vallata in piena campagna toscana, è situato in un’area decisamente molto proficua per l’attività venatoria. Vi confessiamo la nostra preoccupazione per questi primi reclami ricevuti: siamo consapevoli che il turista, soprattutto in questa zona, è attratto dalla natura, dalla tranquillità e dalla possibilità di numerose passeggiate nel verde. La caccia potrebbe quindi divenire un intralcio e un pericolo per l’espansione del turismo in Toscana. Vi incoraggiamo a continuare con la vostra campagna, ritenuta da noi assolutamente necessaria. Ringraziandovi anticipatamente per questo prezioso impegno, cogliamo l’occasione per salutarvi cordialmente”.
5. Incendi, clima e caccia: un trinomio letale per l’ambiente
La pressione esercitata dalla caccia sulla fauna selvatica è ancor di più aggravata dalle attuali particolari condizioni climatiche e dai numerosi incendi che affliggono le montagne.
Come giustamente afferma il Dott. Piero Genovesi (ISPRA), tanto le condizioni prolungate di siccità quanto gli incendi “possono avere impatto su una serie di componenti faunistiche”. Tra queste: il cibo, la salute, la capacità riproduttiva, la casa.
Siccità e incendi, oltre ad uccidere uccelli e mammiferi, colpiscono vegetali, rettili e invertebrati dei quali molti animali “cacciabili” si nutrono. Il venir meno di queste risorse alimentari, oltre a mettere seriamente a rischio la loro sopravvivenza (per la maggiore vulnerabilità a malattie e predazione), non può che ripercuotersi sullo stato di salute degli individui e sulle loro capacità riproduttive.
Le temperature elevate e i periodi prolungati di siccità registrati negli ultimi anni rendono ancor più preoccupante la situazione degli ecosistemi, tanto da poter compromettere la conservazione di alcune specie. La diminuita disponibilità di risorse idriche e il conseguente decremento della disponibilità di cibo (determinata anche dagli incendi) rappresentano un pericolo concreto ed attuale per la fauna selvatica.
Gli incendi sottraggono terreni che danno disponibilità di cibo alla fauna, distruggono ogni possibilità di rifugio, causano l’innalzamento dell’escursione termica come effetto della distruzione della vegetazione, espongono l’area ad un aumento della ventosità, alterano drasticamente il tasso di umidità del terreno; la siccità prolungata riduce le aree palustri, essenziali per il successo riproduttivo di alcune specie di uccelli. Un combinato micidiale di circostanze che già di per sé pone la fauna selvatica in una condizione estrema di sopravvivenza. Ma non basta! “Non c’è due senza tre”, recita un noto adagio: la caccia completa il quadro calamitoso. Ad una situazione già estrema si aggiunge deliberatamente lo stress di spari, uccisioni, ferimenti e tutte le conseguenze connesse delle quali si è già trattato nei capitoli precedenti.
Le criticità sopra evidenziate sono state segnalate dall’ISPRA, nella propria nota inviata a tutte le Regioni italiane e al Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e al Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali nell’agosto 2017 [40], nella quale proponeva l’adozione di misure di riduzione/modificazione delle attività venatorie, idonee a non sovraesporre la fauna cacciabile ad ulteriori rischi. Si riportano qui di seguito testualmente le misure evidenziate nella nota in questione:
- Addestramento ed allenamento dei cani da caccia – L’addestramento e l’allenamento dei cani comportano uno stress aggiuntivo per le popolazioni di fauna stanziale, particolarmente nel caso dei Galliformi, dei Lagomorfi e degli Ungulati, e, nelle condizioni sopra descritte, possono indurre una mortalità non trascurabile. Per questa ragione sarebbe opportuno sospendere l’autorizzazione a svolgere questo genere di attività sino al venir meno delle attuali condizioni climatiche e al ripristino delle condizioni ambientali, incluse quelle vegetazionali;
- Caccia da appostamento – Sino a quando continuerà il deficit idrico si ritiene opportuno venga previsto il divieto di caccia da appostamento, che potrebbe determinare una concentrazione del prelievo in corrispondenza dei punti di abbeverata. Tale divieto risulta di particolare rilevanza qualora sia stata autorizzata l’anticipazione del prelievo (la cosiddetta preapertura) nei confronti di talune specie;
- Caccia agli uccelli acquatici – La riduzione dell’estensione delle aree umide con caratteristiche idonee ad ospitare l’avifauna acquatica deve indurre alla cautela; in particolare, si ritiene opportuno venga previsto un posticipo all’inizio di ottobre dell’apertura della stagione venatoria agli Anatidi e agli altri uccelli di palude. Si ricorda peraltro che tale indicazione, motivata da considerazioni biologiche e tecniche che prescindono dalle condizioni climatiche contingenti, è contenuta nel documento “Guida per la stesura dei calendari venatori ai sensi della legge n. 157/92, così come modificata dalla legge comunitaria 2009, art. 42” a suo tempo trasmesso da ISPRA alle Amministrazioni regionali. Sulla base dell’andamento climatico che caratterizzerà il prossimo mese di settembre, si potrà valutare se la situazione si sarà normalizzata o richiederà ulteriori misure di tutela.
- Caccia alle specie stanziali – L’introduzione di eventuali misure atte a limitare il prelievo sulle popolazioni delle specie non migratrici dovranno essere valutate caso per caso, sulla base dei dati sul successo riproduttivo raccolti a livello locale dagli organismi di gestione degli ambiti territoriali di caccia e dei comprensori alpini. In assenza di informazioni dettagliate a riguardo, si ritiene opportuno vengano adottate a titolo precauzionale misure volte a limitare la pressione venatoria nel corso della stagione (ad esempio attraverso la riduzione del periodo di caccia o la limitazione del carniere consentito). Particolare attenzione dovrà essere prestata nelle situazioni ove è prassi abituale effettuare ripopolamenti di lepri o di Galliformi nel corso dell’estate; la mortalità dei soggetti rilasciati, già elevata in condizioni ambientali normali, nella situazione attuale potrebbe diventare talmente alta da rendere pressoché inefficace lo stesso intervento di ripopolamento. Qualora non siano ancora stati effettuati i rilasci, si suggerisce di attendere il miglioramento delle condizioni ambientali e, conseguentemente, di posticipare l’apertura della caccia nei confronti delle specie oggetto di ripopolamento per consentire l’ambientamento dei soggetti immessi. In caso contrario, si ritiene realistico ritenere che solo una frazione minima dei contingenti introdotti in natura sia ambientata, pertanto si suggerisce di adottare provvedimenti volti ad evitare che si eserciti un eccessivo prelievo nei confronti delle popolazioni naturali.
- Caccia nelle aree interessate da incendi ‐ L’esercizio dell’attività venatoria a carico di talune specie può rappresentare un ulteriore motivo di aggravamento delle condizioni demografiche delle popolazioni interessate, non solo nelle aree percorse dagli incendi, ma anche nei settori limitrofi e interclusi, allorquando l’azione del fuoco abbia interessato percentuali importanti di un’area (es. oltre il 30%) e quando gli incendi si siano succeduti nell’arco degli ultimi anni negli stessi comprensori. Lo scrivente Istituto è dunque del parere che le Amministrazioni competenti dovrebbero attivare specifiche iniziative di monitoraggio soprattutto a carico delle popolazioni di fauna selvatica stanziale o nidificante, potenzialmente oggetto di prelievo venatorio, assumendo di conseguenza eventuali misure di limitazione del prelievo stesso. In particolare dovrebbero essere emanati adeguati provvedimenti affinché il divieto di caccia nelle aree forestali incendiate (come già previsto dalla Legge 353/2000, art. 10, comma 1 per le sole aree boscate) sia esteso almeno per due anni a tutte le aree percorse dal fuoco (cespuglieti, praterie naturali e seminaturali, ecc.), nonché ad una fascia contigua alle aree medesime, le cui dimensioni debbono essere stabilite caso per caso in funzione delle superfici incendiate, della loro distribuzione e delle caratteristiche ambientali delle aree circostanti.
Le sopraindicate misure individuate dell’ISPRA, a parere di chi scrive, non fanno altro che confermare quanto l’attività venatoria, quand’anche legittimamente esercitata, se non adeguatamente monitorata, possa determinare gravi danni alle comunità e, quindi, all’ambiente. Ancora una volta, sorprende il silenzio di quell’ambientalismo che si indigna (giustamente) per gli alberi andati in fumo ma neanche sembra percepire l’altrettanto grave e devastante riflesso sugli animali.
Un ulteriore paradosso consiste nel fatto che alcune Regioni, nonostante i gravissimi incendi che hanno colpito i propri territori, abbiano pensato bene di anticipare l’apertura della caccia (es. Regione Calabria nel 2021).
6.Immissioni e allevamenti di fauna selvatica …
ma non libera
Le immissioni faunistiche: “selvatico” part-time
Il termine “selvatico” evoca concetti di libertà, spontaneità, naturalezza, tutt’altro rispetto all’ordine, alla pianificazione, alla cura. Definiamo selvatici una pianta o un animale che nascono e crescono liberamente, secondo il ritmo di madre natura, esposti alla dolcezza e alla spietatezza della vita nell’ambiente puro, lontani dalla scienza e dalle manipolazioni umane. Quindi, ci aspettiamo di entrare in un bosco e di trovare un ambiente incontaminato, animato da fauna “selvatica”, appunto. Invece non è sempre così! Abbiamo contaminato, manipolato anche quella. Abbiamo deciso quanti e quali esemplari devono abitare determinate zone e, per fare ciò, ovvero per creare dell’“equilibrio” che tale è solo nella nostra testa, abbiamo immesso alcune specie (che devono avere le caratteristiche cha abbiamo deciso noi) e abbiamo deliberato l’abbattimento di altre. Sembra fantascienza. Invece è una realtà che non solo si ripete regolarmente ma, per di più, non fa neanche notizia, è normale.
Siamo i regolatori di tutto e per conseguire i nostri “nobili” obiettivi ci serviamo di loro: gli incolpevoli, impotenti ed ignari animali selvatici. Gli strumenti che abbiamo creato per finalizzare il tutto sono l’introduzione, la reintroduzione e il ripopolamento.
Introduzioni
Le “introduzioni” sono un genere di immissione faunistica molto invasivo che può avere gravi ripercussioni ai danni degli habitat e della fauna autoctona. Consiste nell’immissione di specie alloctone in ambienti a loro totalmente estranei. Proprio per ragioni di natura biologica ed ecologica, le introduzioni sono da evitarsi e, in relazione alle specie esotiche, sono comunque vietate.
Reintroduzioni
Quando una specie originaria di un determinato ambito territoriale scompare o inizia a scomparire (cosa che per lo più avviene per effetto delle condotte umane), vengono adottate delle misure di ripristino della situazione faunistica antecedente al declino della popolazione. In tal caso, quindi, si parla di “reintroduzione”, ovvero di immissioni di fauna autoctona. Sebbene a primo acchito questa tipologia di intervento possa sembra del tutto compatibile tal punto di vista biologico ed ecologico, anch’esso può avere delle conseguenze negative su habitat e fauna già presente sul territorio se il tutto non viene pianificato sulla scorta di studi scientifici adeguati e realizzato secondo un attento progetto esecutivo.
Ripopolamento: i cosiddetti animali “pronta caccia”
Diversa cosa è il “ripopolamento”. In questo caso non si è di fronte ad una popolazione autoctona scomparsa o che sta scomparendo. Non vi è una necessità di conservazione della specie. La pratica del ripopolamento è mossa essenzialmente da due esigenze: aumento della comunità per le necessità del mondo venatorio; facilitazione di insediamento di una specie nel territorio e velocizzazione della colonizzazione. Insomma, esigenze tutte nostre. Nulla che abbia a che fare con le esigenze della natura, degli animali.
“Tale pratica può essere considerata una misura utile ai fini della conservazione di specie e/o popolazioni qualora sia intesa a facilitare l’insediamento spontaneo in un’area, riducendo i tempi di incremento e colonizzazione, oppure a superare eventi eccezionali (epidemie, eventi meteo-climatici avversi). In ogni caso, anche i ripopolamenti dovrebbero essere attuati secondo precisi criteri tecnico-scientifici, solo dopo aver verificato la rimozione o il superamento dei fattori di criticità, e previa elaborazione di uno studio di fattibilità e di un progetto esecutivo. Qualsiasi altro tipo di ripopolamento è da considerarsi inutile ed anzi spesso contrario ai principi di conservazione della fauna selvatica: come tale andrebbe disincentivato e progressivamente impedito”[41].
Come si diceva poc’anzi, un uso meramente antropico, egoistico, degli “oggetti” animali: “La pratica dei ripopolamenti è oggi estremamente diffusa nel mondo venatorio che l’ha fatta propria come principale, se non spesso esclusiva, forma di gestione venatoria (i cosiddetti ripopolamenti “pronta caccia”) e ne fa un uso indiscriminato, acritico e ripetuto, finalizzato essenzialmente alla sola fruizione tramite prelievo, più o meno immediato, degli stessi animali rilasciati”[42].
Allevamenti di fauna selvatica: un ossimoro
Ebbene sì, la fauna selvatica può essere allevata. Sembra una contraddizione in termini ma è così. La vigente normativa prevede una disciplina dettagliata e distingue la pratica dell’allevamento a seconda delle finalità che persegue: per il rilascio in natura (a scopo di ripopolamento e/o reintroduzione) o per “uso e consumo” diretto umano (allevamenti a scopo alimentare, amatoriale ed ornamentale).
Per quel che riguarda il ripopolamento, la normativa prevede che siano rispettati dei parametri volti a garantire che le specie rilasciate in natura non comportino un rischio di inquinamento genetico ai danni delle comunità selvatiche e non costituiscano per esse un veicolo di malattie infettive e/o parassitarie. Ci si chiede come sia possibile riuscire a garantire tutti questi standard di sicurezza dal momento che è chiaramente impossibile sottoporre tutta la fauna selvatica di un allevamento a dei controlli sanitari, che è estremamente difficoltoso riuscire a catturare tutti gli animali di un allevamento, che occorre evitare ogni sorta di interazione tra l’uomo e l’animale che poi dovrà andare a vivere per i boschi. C’è da chiedersi, in fin dei conti, quale necessità vi sia di allevare fagiani, lepri, starne, ungulati? Per alimentare lo spasso dei cacciatori, ovviamente! Mille attenzioni, mille risorse economiche e umane impiegate per “costruire” individui selvatici al fine di alimentare il divertimento di alcuni che se ne vanno sparando per i boschi, uccidendo e ferendo uomini e animali, inquinando l’ambiente. Gli animali d’allevamento saranno comunque particolarmente esposti a finire sotto i colpi dei cacciatori: non sono cresciuti nell’ambiente in cui verranno rilasciati e non potranno essere perfettamente integrati con esso, con le peculiari realtà che lo contraddistinguono. Non saranno forti come i loro fratelli veramente selvatici e non avranno la loro esperienza. In qualche modo, gli allevati saranno entrati in contatto con l’uomo e, forse, non avranno il timore che dovrebbero, invece, avere. Nati per essere uccisi.
In merito agli allevamenti per uso alimentare, gli standard di sicurezza citati per il rilascio in natura sono più attenuati, dal momento che la fauna allevata non entrerà in contatto con le specie selvatiche. Un caso particolare di questo tipo di allevamento per “uso e consumo” riguarda quelli a scopo “amatoriale e ornamentale”. Potrebbe capitare (o è già capitato) che le specie non aventi standard adeguati per poter entrare in contatto con i selvatici vengano comunque rilasciati in natura accidentalmente o illegalmente. Il verificarsi di tali ipotesi causerebbe dei grossi rischi per le popolazioni selvatiche inserite in un ambiente naturale già in precario equilibrio.
Quello dell’inquinamento genetico è un problema di grandi proporzioni. L’introduzione di specie alloctone ha causato la perdita di ceppi autoctoni e la creazione di ibridazioni che hanno nuociuto all’ambiente. Un caso per tutti: il cinghiale. “A livello nazionale e locale, la pratica dell’importazione di selvaggina stanziale, in particolare Lepre, Starna e Fagiano, ma anche Cinghiale e Germano reale, appartenenti a razze geografiche estranee al territorio nazionale, ha caratterizzato e malauguratamente a volte caratterizza tuttora la gestione venatoria nazionale, sia essa di iniziativa pubblica che privata. La liberazione di massicci quantitativi di animali appartenenti a sottospecie alloctone ha determinato un vero e proprio inquinamento genetico delle popolazioni locali, le cui caratteristiche differenziali sono andate perdute”[43].
“In seguito alla selezione artificiale operata negli allevamenti, il patrimonio genico dei ceppi allevati tende ad omogeneizzarsi ed a discostarsi sempre più da quello delle forme selvatiche originarie con effetti negativi sulla capacità di sopravvivere alle difficili condizioni della vita libera e quindi di formare nuclei vitali in grado di auto-mantenersi. Altri numerosi aspetti comportamentali, su base appresa e non genetica, sono fortemente condizionati dall’allevamento che può interferire pesantemente su caratteristiche quali l’imprinting (talvolta i pulcini vengono fatti allevare a chiocce di specie diversa), i legami familiari e di gruppo, la ricerca ed il riconoscimento del cibo, l’identificazione ed i comportamenti di difesa dai predatori.
Infine, vanno considerati gli aspetti sanitari propri degli animali allevati in maniera intensiva che, oltre a limitare la capacità di sopravvivenza in natura dei soggetti allevati, possono determinare la selezione e la diffusione di agenti patogeni anche tra le residue popolazioni naturali conspecifiche o appartenenti a specie affini”[44].
Centri privati di produzione fauna selvatica
La normativa vigente, oltre a prevedere gli allevamenti per immissione in natura e per uso umano, disciplina un ulteriore tipo di allevamento di fauna selvatica, i “Centri privati di produzione fauna selvatica”. È il caso di dirlo, si tratta di un allevamento dai connotati ibridi. La fauna allevata potrebbe essere immessa in natura e può essere anche prelevata per il consumo. Alcune persone (titolare e dipendenti dell’impresa, e altre persone nominativamente indicate) possono abbattere la fauna con modalità venatorie. Un luna-park per adulti sparatori, insomma. Altro che animali per alimentazione, carne per necessità, qui si tratta di ben altro!
Allevamenti e immissioni: artifici necessari per la fauna o espedienti per il comodo dei cacciatori?
“Di fronte a un tale scenario è naturale porsi una domanda: Come possono le popolazioni animali resistere a questa guerra su tutti i fronti? Come fanno a esistere ancora animali vivi da cacciare? Si tratta di perplessità del tutto legittime. In effetti, è assai verosimile che la stragrande maggioranza delle specie cacciate sarebbero ormai estinte se i loro numeri non venissero artificialmente rimpinguati da massicce campagne di ripopolamento, vale a dire dall’immissione nell’ambiente di animali di specie cacciabili allevati appositamente e liberati in periodo di caccia chiusa. Tra gli istinti innati negli animali liberi che gli animali d’allevamento non posseggono c’è quello di fuggire l’uomo; di conseguenza gli animali da ripopolamento vengono abbattuti con estrema facilità. Inoltre questi animali, a causa delle condizioni in cui vengono allevati, sono un pericoloso vettore di malattie endemiche negli allevamenti e sconosciute presso le popolazioni selvatiche, che quindi non hanno sviluppato contro di esse alcuna resistenza. Dal punto di vista ecologico, è poi fondamentale osservare che, data la notoria difficoltà di far riprodurre gli animali selvatici in cattività, i ripopolamenti tendono ad essere effettuati con forme simili ma non identiche a quelle naturalmente presenti in un ecosistema, la maggior parte delle quali sono il risultato di ibridazioni tra specie selvatiche e domestiche. Il ripopolamento rappresenta dunque una fonte potenziale di inquinamento del patrimonio genetico delle specie selvatiche, tanto più che gli animali liberi talvolta si accoppiano con gli animali da ripopolamento. Questo è accaduto ad esempio con il cinghiale: il cinghiale da ripopolamento è un ibrido tra il cinghiale e il maiale Large White, un animale assai più grande e prolifico del cinghiale selvatico. Per quanto queste caratteristiche possano gratificare i cacciatori, che possono contare su una preda di dimensioni eccezionali, i cinghiali da ripopolamento, con i dieci-dodici piccoli che generano in ogni cucciolata, causano danni rilevantissimi ad attività economiche anche molto pregiate, come la coltivazione dei tartufi; ovviamente questi danni vengono usati dalle lobbies venatorie per sostenere la tesi della “nocività” degli animali selvatici e quindi la necessità della caccia.
Come abbiamo visto, le varie teorie elaborate nel corso degli ultimi settant’anni per giustificare l’esercizio della caccia sono riducibili fondamentalmente a una di queste due forme:
- gli animali sono nocivi alle colture quindi: bisogna ucciderli
oppure
- gli animali uccisi dalla caccia non influenzano gli ecosistemi quindi: si possono uccidere
Nessuna di queste affermazioni è scientificamente fondata. A dimostrarne la falsità, e a garantire l’incompatibilità tra la moderna attività venatoria e la sopravvivenza dell’ecosistema sono proprio i continui ripopolamenti, effettuati a beneficio dei cacciatori senza i quali non esisterebbero più animali cui sparare.
È fondamentale notare come in alcuni casi, per alcune specie animali come il cinghiale, siano state proprio le immissioni in ambiente di specie difficili da gestire ad aver provocato situazioni dannose per le attività economiche. Gli eventi di ripopolamento/danno/abbattimento rappresentano tre fasi di un unico circolo vizioso, dannoso per l’agricoltura e per l’ambiente e utile esclusivamente ai cacciatori. E questo circolo che dobbiamo proporci di spezzare” [45].
Oltre a quella posta dal Dott. Tettamanti, un’altra domanda lecita potrebbe essere: se la caccia non esistesse, ci sarebbe la necessità di istituire allevamenti e promuovere immissioni? La natura si è autoregolata da sempre, quindi, probabilmente gli allevamenti e le immissioni non avrebbero ragion d’essere in assenza di attività venatoria così impattante o, per lo meno, sarebbero molti meno nel numero e sicuramente meno invasivi per individui, comunità e habitat. Se così fosse, ben si capirebbe come la caccia porta con sé tutta una serie di conseguenze negative per l’uomo e l’ambiente in cui vive: dall’impatto ambientale, gli incidenti, la fauna uccisa, quella allevata, le ibridazioni e i danni all’agricoltura, solo per citarne alcuni.
7.La caccia è realmente sostenibile?
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- Le teorie sulla sostenibilità della caccia e le argomentazioni che le confutano
Le teorie che ambiscono a sostenere la compatibilità tra caccia e tutela ambientale, vale a dire la sostenibilità dell’attività venatoria, sono fondamentalmente tre: la teoria del surplus, la teoria della curva sigmoide e la teoria della predazione. Le tre teorie si basano, rispettivamente, sui concetti di “eccedenza”, di “crescita esponenziale” e sull’analogia tra l’azione esercitata dai predatori e dalla caccia su una determinata popolazione faunistica. Di fatto, le tesi testé citate vengono confutate dal Tettamanti[46] nella misura in cui: a) il prelievo venatorio non sostituisce le morti naturali degli individui, posto che in natura muoiono per morte naturale o per predazione le specie più deboli, vecchie o malate, mentre la caccia uccide indiscriminatamente; b) quella della crescita esponenziale delle specie in mancanza di predatori o competitori è un’ipotesi non fondata in quanto, in natura, la crescita di una popolazione che si trovi nelle citate condizioni comincerà a rallentare fino a trovare un punto di equilibrio anche per i limiti di risorse disponibili in ambiente (cibo, territori per la riproduzione, ecc.), oltre che per fattori intraspecifici (aumento della mortalità giovanile, innalzamento dell’età delle femmine alla riproduzione, diminuzione del tasso di natalità, aumento della mortalità degli adulti) e ambientali (competizione interspecifica, clima, predazioni, malattie)[47].
Gli animali “nocivi”: la teorizzazione della “necessità” della caccia
Se le teorie sopra esposte riguardano la presunta “sostenibilità” del prelievo venatorio delle specie cacciabili, quella che tratteremo adesso rappresenta un caso a sé, dal momento che fonda il proprio convincimento sulla “necessità” della caccia di diminuire la consistenza di alcune specie di animali considerati “nocivi” o, addirittura, eradicare l’intera comunità. In prima battuta verrebbe da chiedersi quali siano gli animali nocivi ma, soprattutto, la domanda potrebbe essere: nocivi per chi? Va innanzitutto chiarito che “animali nocivi” è una locuzione spicciola che viene utilizzata specie in ambito venatorio per indicare animali quali, ad esempio, nutrie, volpi, gazze, cornacchie. Sono i cacciatori a definire questa fauna “animali nocivi”, considerato che sono loro competitor! Sono “nocivi”, infatti, per l’attività venatoria e, quindi, vanno abbattuti. I fautori di questa teoria sostengono la necessità degli abbattimenti di questi predatori per la tutela della fauna predata che, guarda caso, è di interesse venatorio. Posta questo discutibile smanioso bisogno prevaricatore dell’uomo di stabilire quale animale debba morire a vantaggio di quale altro, vi sono, però, delle considerazioni sull’argomento sostenute dal Tettamanti che ne smonta le fondamenta: “oggi sappiamo che i predatori non scelgono a caso le loro prede ma si concentrano sugli individui vecchi o malati; inoltre la maggior parte dei predatori si nutrono anche di carogne, effettuando così un’azione di pulizia, a livello delle popolazioni animali e a livello dell’ambiente, senza contare che le specie predatrici sono in genere territoriali, e la limitata disponibilità di territori ne limita naturalmente l’accrescimento”. Quindi, i predatori fondamentalmente agiscono su poche e determinate prede di quel ristretto ambito territoriale. Gli animali “nocivi” non nuocciono all’altra fauna come si vorrebbe far credere, non sono degli sterminatori. Tuttavia, comunque, danno fastidio ai cacciatori che, a loro volta però, sono essi stessi “nocivi” per l’ambiente e per gli animali che vorrebbero proteggere dai predatori.
Oltre che in ambito ludico (la caccia), vengono considerate “nocive” anche le specie che causano problemi socio-economici (danni all’agricoltura). Tuttavia, studi più approfonditi condotti su tale fauna hanno evidenziato come quegli individui abbiano delle caratteristiche uniche e come giochino un ruolo non secondario nell’ecosistema. Per citare un esempio riportato dal Tettamanti: “Per quanto riguarda poi i “danni all’agricoltura” rappresentati dal consumo di una parte del raccolto da parte di varie specie di uccelli, essi sono largamente compensati dal concime rappresentato dagli escrementi degli uccelli stessi, per non parlare della loro formidabile efficienza nel distruggere gli insetti, che li rende potentissimi alleati nell’agricoltura a lotta integrata o biologica. I paesi che sono effettivamente riusciti a eradicare una popolazione di animali considerati “nocivi”, come è accaduto ad esempio in Cina con i passeri, sono poi stati costretti a reintrodurli perché la loro scomparsa aveva creato nell’ecosistema squilibri che danneggiavano anche l’agricoltura”[48].
Infine, vale la pena di rilevare come, proprio per i danni causati alle coltivazioni dalla fauna selvatica, i cacciatori sono riusciti a farsi veder di buon occhio da parte degli agricoltori. Ciò che però stride in tutto ciò, è che i cacciatori abbattono quegli stessi animali “nocivi” per i quali poi richiedono il ripopolamento!
Il caso della nutria: da specie protetta ad animale nocivo
Abbiamo visto come la “nocività” non sia una proprietà intrinseca di un animale ma sia, invece, il semplice frutto della percezione dell’uomo che, secondo la propria utilità, definisce tale quella fauna che collide con i propri interessi. Come se non bastasse, la “nocività” di una specie è stata il più delle volte determinata proprio dall’uomo.
Eclatante è il caso della nutria, prima specie protetta, poi animale “nocivo”: “La Nutria, nome scientifico Myocastor coypus (Molina 1782), detta anche comunemente castorino, è un mammifero roditore originario del Sud America. La sua presenza si è diffusa, negli ultimi decenni, in molte parti dell’Europa, compresa l’Italia. Infatti, se inizialmente l’animale era stato introdotto per essere allevato come specie da “pelliccia” (detta appunto pelliccia di castorino), successivamente, a causa della fuga di questi animali e, in diversi casi, della loro liberazione nell’ambiente a seguito della scarsa redditività dell’allevamento, si è arrivati ad un notevole incremento della popolazione. Il sovrappopolamento di tale specie ha raggiunto dimensioni non più sostenibili in ampie zone del territorio italiano, in particolare la pianura Padana, la costa adriatica sino all’Abruzzo e le coste tirreniche sino al Lazio. L’estrema diffusione delle nutrie, che in alcuni territori sono stimate nell’ordine di centinaia di migliaia di esemplari, a causa delle loro caratteristiche etologiche (vivono lungo gli argini di corsi d’acqua scavando cunicoli e gallerie e si alimentano con piante acquatiche, tuberi, rizomi, radici ed alcune colture agricole come mais, barbabietola da zucchero, ecc) sta determinando gravi problemi sia per le colture agricole che per lo stesso mantenimento dell’integrità ambientale. Il Decreto Legge 24 Giugno2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n.116, all’art.11, comma 12, ha modificato l’articolo 2, comma 2, della legge 11 Febbraio 1992 n.157 recante “ Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio” inserendo le nutrie nell’elenco delle specie nocive per le quali non si applicano le previsioni della richiamata Legge n157 del 1992. La nutria, dallo status di fauna selvatica, e quindi protetta, transita allo status di specie nociva, alla stregua di animali infestanti e dannosi”[49].
Il caso del cinghiale
A ben vedere, come per la nutria, anche il problema cinghiale è stato causato dall’uomo. Infatti, nei decenni scorsi, per dar sfogo alla sete di abbattimento di animali dei cacciatori, sono stati immessi in Italia delle specie alloctone, molto più prolifiche. Ed ancora ulteriori immissioni, anche abusive, vengono tutt’oggi praticate: “La conferma che i cinghiali abbattuti erano d’allevamento è venuta dall’esame delle viscere degli animali abbattuti, da cui è emerso che erano stati tutti nutriti con alimenti a base di mangimi”[50]. Ad amplificare gli effetti dell’immissione della specie “straniera” ci pensa la caccia vera e propria. Per effetto degli abbattimenti, infatti, i branchi si disgregano, la sincronizzazione dell’estro si perde, aumenta la fecondità. L’attività venatoria, infatti, ha innescato un meccanismo micidiale di proliferazione dei cinghiali che sta causando moltissimi problemi dei quali i cacciatori stessi, oggi, vanno fieri di potersi dichiarare i risolutori.
Quali strumenti per il contenimento dei cinghiali?
Oggigiorno, specie alla luce della nascente sensibilità contro la violenza sugli animali, appare opportuno investire su soluzioni non cruente per il contenimento della fauna selvatica. Un sistema che si sta rilevando molto efficacie è rappresentato dalle recinzioni elettriche.
In passato, è stato individuato e praticato un ulteriore strumento per il contenimento della fauna selvatica: il “foraggiamento dissuasivo”[51]. Quel sistema avrebbe dovuto consentire di “distrarre” la fauna dalle colture agricole, facendole convergere verso altri siti nei quali si sarebbero predisposti, appunto, dei foraggiamenti artificiali.
Purtroppo, il metodo del foraggiamento dissuasivo è stato “manipolato” da alcuni cacciatori che, stravolgendone la ratio, lo hanno trasformato in una sorta di allevamento di cinghiali a cielo aperto, per migliorare le performance delle loro batture di caccia. Hanno utilizzato i foraggiamenti per farli cresce di numero e di stazza; hanno utilizzato i foraggiamenti come “punto di raccolta” dei cinghiali per un abbattimento più semplice e sistematico. Oggi, con l’intervento della Legge di stabilità n. 221 del 2015, quel sistema di contenimento è stato vietato per alcune specie di animali, tra cui i cinghiali.
Sulle modalità di attuazione dei foraggiamenti dissuasivi – quando ancora erano consentiti per i cinghiali – e sui rischi applicativi, il Tettamanti ci aveva visto benissimo: “Le sole recinzioni elettriche, per quanto bene installate e mantenute, non sono comunque in grado di fermare l’urto continuo di cinghiali affamati: la corrente elettrica può soltanto dissuadere ma non risolve il problema del cibo. Occorre perciò parallelamente effettuare il “foraggiamento dissuasivo” che non deve essere confuso con il foraggiamento praticato dalle squadre di caccia al cinghiale per incentivare l’uscita dei cinghiali dalle aree protette durante la stagione venatoria o per richiamare le scrofe a partorire nei propri territori di caccia. Il foraggiamento dissuasivo deve essere praticato utilizzando il mais, l’alimento maggiormente gradito dai cinghiali, ed essere impiegato esclusivamente nel periodo della maturazione dei cereali e delle uve, in parallelo al funzionamento degli impianti elettrici di prevenzione. Importante inoltre è sottolineare l’inadeguatezza del foraggiamento condotto con le strategie tradizionali (bidone bucato, mais interrato o fornito in mucchi): la somministrazione di mais in un solo o in pochi siti, così come viene fatto tradizionalmente dai cacciatori con altri obiettivi, non è in grado di soddisfare le esigenze alimentari di più branchi e non riesce ad impedire che alcuni branchi vadano ad alimentarsi a danno delle colture agricole”[52].
Inoltre, esiste un nuovo strumento che, però, non ha ancora trovato piena applicazione in Italia e che potrebbe risolvere la questione cinghiali in maniera non cruenta, ecosostenibile e duratura nel tempo: il vaccino immunocontraccettivo. A fronte di quella che viene dichiarata “emergenza” cinghiali, per la quale ci si mobilità per pianificare abbattimenti tutto l’anno, non si riesce a trovare il tempo per avviare lo sviluppo del vaccino. La cosa sembra davvero singolare. In tal senso, l’8 marzo 2022, la LAV (Lega Anti Vivisezione) ha pubblicato un comunicato dal titolo “Vaccino per inibire la fertilita’ dei cinghiali in Legge di Bilancio 2022: basta ritardi, Min. Speranza intervenga!”: “È scaduto il 1° marzo il termine entro il quale il Ministro della Salute avrebbe dovuto autorizzare la sperimentazione del vaccino immunocontraccettivo GonaCon, ovvero del farmaco che, somministrato ai cinghiali, consente di bloccarne la riproduzione per un periodo che può arrivare fino a sei anni con una singola dose. Ma di questo provvedimento, indicato al comma 705 dell’articolo 1 della Legge di Bilancio 2022, non c’è alcuna traccia nelle stanze del Ministero. Una situazione intollerabile se si considera che sono stati stanziati 500.000 euro per l’acquisto e l’utilizzo del farmaco nel nostro Paese. L’avvio dello sviluppo del farmaco immunocontraccettivo, rappresenta il primo passo per raggiungere l’ambizioso obiettivo di avere finalmente a disposizione un metodo non cruento, non letale e soprattutto efficace, da applicare in tutti i casi nei quali fino a oggi è stato fatto ricorso ai fucili dei cacciatori, causando milioni di morti fra gli animali selvatici. L’opinione diffusa è infatti vittima della propaganda venatoria, secondo la quale solo i cacciatori sarebbero in grado di contenere i danni all’agricoltura imputati agli animali selvatici, ma le evidenze raccontano l’esatto contrario. Negli ultimi decenni, infatti, i danni dichiarati dagli agricoltori sono costantemente cresciuti, nonostante gli animali subiscano una pressione venatoria fortissima e nonostante dal 2005 tutti gli ungulati, cinghiali compresi, possono essere cacciati tutti i giorni dell’anno a qualsiasi ora. È perciò evidente che la caccia non solo non è in grado di contenere i danni prodotti all’agricoltura, ma contribuisce invece al loro incremento. “Ci domandiamo per quale motivo il Ministero non abbia ancora provveduto a realizzare quanto imposto dalla Legge di Bilancio – commenta Massimo Vitturi, responsabile LAV Animali selvatici – ancora di più su un tema di grande interesse pubblico, perché riguarda la vita e il benessere degli animali selvatici. Chiediamo al Ministro Speranza di intervenire con urgenza presso gli uffici del suo dicastero, ulteriori ritardi non sono tollerabili!”[53].
Che per il contenimento dei cinghiali possano essere utilizzati metodi non cruenti è cosa risaputa ma sembra che l’imperativo sia sempre “uccidere”, “uccidere”, “uccidere”. Da ultimo, anche l’ex Ministro dell’Ambiente, già Generale dei Carabinieri, Sergio Costa, ha pubblicamente inteso prendere le distanze dagli abbattimenti dei cinghiali, considerando controproducente quella misura: “I cinghiali in Italia sono stimati in circa 1 milione. I danni agricoli risarciti ogni anno sono pari a 1,2 milioni di euro. Il tema che si sta aprendo al dibattito attuale è: un piano straordinario di abbattimento dei cinghiali attraverso la liberalizzazione della caccia durante tutto l’anno solare, in quelle zone ove la sua presenza è oltre soglia massima. Io non concordo. Sparare liberamente al cinghiale in ogni periodo dell’anno significa incidere anche sulle altre specie selvatiche che vivono nelle aree boschive e che sono nel delicato periodo della riproduzione. È un rischio troppo alto per la biodiversità. Inoltre, è scientificamente dimostrato che i piani straordinari di abbattimento (Francia, Spagna, ecc…) non hanno sortito l’effetto desiderato, in quanto le femmine di cinghiale sottoposto a caccia hanno aumentato l’estro per anno riproducendosi con maggiore frequenza, proprio per sopperire all’abbassamento del numero del branco. Quando ero ministro feci varie riunioni al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali (che detiene la competenza) e depositai una proposta che non fu considerata (e ancora non ho capito il perché). In sostanza, proposi:
- Utilizzare le trap boarbusters (già impiegate negli USA per questi scopi). Trappole a recinto telecomandate che catturano i cinghiali in modo non cruento;
- Somministrare vaccini immunocontraccettivi tramite dardi con utilizzo di fucili speciali che ne iniettano la dose (il costo di ogni dose è di circa 2 euro);
- Monitorare scientificamente, tramite il Sistema agenziale ambientale, l’evoluzione della specie.
Segnalo che il vaccino non da controindicazioni per il cinghiale, altri animali predatori e l’essere umano. Dura fino a 6 anni. Dove sperimentata questa tecnica (negli USA) ha dimostrato che, in modo non cruento, non pericoloso e poco invasivo verso gli altri animali, ha ridotto l’incidenza dei cinghiali di non meno del 60% con punte anche dell’80%. Inoltre, così è agevole, tramite struttura veterinaria, verificare la presenza di peste suina nei branchi catturati. La mia proposta fu depositata al MIPAF 4 anni fa. Non c’è bisogno di sparare per affrontare e risolvere la questione cinghiali”[54].
Cinghiali: emergenza o comodo?
Oggi giorno siamo inondati da video e foto che raffigurano famiglie di cinghiali nei centri abitati e notizie che evidenziano i danni che quella fauna causa alle attività socio-economiche. Un ottimo terreno per alimentare una campagna volta a sostenere la necessità di incrementare l’abbattimento di quegli individui, fronteggiando così la situazione di “emergenza”. Le associazioni venatorie si dicono pronte a dare il loro contributo: non aspettavano altro, è quella la loro mission, andare per la natura e sparare. Quel che appare anomalo è come i governanti non si rendano conto che se la caccia fosse stata la soluzione, oggi non avremmo dovuto avere il problema! In realtà, è proprio l’attività venatoria ad aver causato il “problema cinghiali” e continua ad alimentarlo. Le immissioni hanno reso esponenziale il moltiplicarsi degli individui; le uccisioni causano l’aumento delle popolazioni per effetto delle dinamiche dei branchi: disgregazione delle famiglie e squilibri dell’estro, necessità di riprodursi più frequentemente per fronteggiare la diminuzione della specie, abbandono delle zone in cui non si sentono più al sicuro perché aggredite dai cacciatori e spostamento verso altri luoghi (campagne, città), ecc. Tutto ciò è ormai risaputo e scientificamente dimostrato. Ed allora, perché si continua a spendere soldi pubblici per la caccia e per i danni diretti e indiretti che essa causa e non li si investono, invece, per il contenimento non cruento dei selvatici? Sembra quasi che si tratti di una “emergenza” causata e alimentata, che incontra il favore di chi ha bisogno che quell’emergenza continui ad esistere per dar sfogo ai propri capricci. Un comodo, quindi, tenuto al mondo venatorio sulle spalle di agricoltori e ambiente, non una vera “emergenza”, intesa come un momento critico imprevisto, accidentale!
La gestione dell’emergenza cinghiali e di altre “pest species” può essere demandata all’intervento dei cacciatori?
Rilevati i problemi derivanti dalle specie cosiddette “critiche” – che incidono sulle attività socio-economiche e possono incidere sull’esistenza di altre specie presenti negli stessi habitat – e preso atto dell’esigenza di porvi un qualche rimedio, ci si chiede se i cacciatori siano le persone giuste cui affidare la gestione della problematica delle pest species. Considerate l’importanza della questione e la delicatezza delle possibili implicazioni “appare necessario che in occasione di ogni specifico programma di gestione delle specie problematiche che possa in qualche modo avere effetti diretti o indiretti su specie non target, vengano seguiti i più opportuni indirizzi tecnici, venga effettuata una attenta e rigorosa scelta del personale addetto, che dovrebbe essere specificatamente addestrato e seguito, siano accuratamente definiti tempi e modalità di intervento, sentito il parere tecnico-scientifico dell’ISPRA”[55].
I grandi assenti: principi tecnico-scientifici e prelievo consapevole e responsabile
Fatte salve le tematiche relative al diritto alla vita degli animali selvatici – che renderebbero di per sé sbagliata l’idea stessa di caccia – si può tuttavia considerare la questione della sostenibilità dell’attività venatoria in ordine alla conservazione degli habitat e alla tutela degli animali. Ragionando su tale visione prospettica, la caccia sarebbe sostenibile solo se fosse fondata su principi tecnico-scientifici ai quali fossero affiancati modalità di prelievo consapevoli e responsabili[56]. Ciò, però, non appare realizzato né facilmente realizzabile! Si prenda ad esempio il caso della beccaccia, esemplare che, a quanto pare, sta soffrendo un decremento demografico. Quante e quali beccacce possono essere abbattute su quel determinato territorio? Ecco, ad una simile domanda può far da contraltare solo una risposta che sia fondata su uno studio tecnico-scientifico che, però, non sembra mai essere stato realizzato. Ed allora, ci si chiede come possa tradursi, nel mondo pratico dell’esercizio venatorio, il prelievo degli esemplari di beccaccia, se non in una sparatoria indiscriminata contro quello o quell’altro individuo. Già solo quest’assunto basterebbe per mettere in crisi il concetto di sostenibilità della caccia, ma vi è di più. Quand’anche esistesse uno studio come quello accennato, occorrerebbe confidare su un prelievo consapevole e responsabile dei singoli cacciatori. In un contesto come il nostro, ove gli illeciti nell’ambito venatorio sono molto rilevanti, è possibile demandare la sostenibilità del prelievo venatorio a chi quel prelievo lo esercita? Ad aggravare la situazione, occorre evidenziare che i controlli da parte delle Istituzioni non sembrano adeguati alla realtà della caccia in Italia. In fin dei conti, “un prelievo venatorio non programmato a carico delle specie oggetto di caccia, oltre che causare il depauperamento delle loro popolazioni, può determinare anche incidenze negative anche nei confronti di entità faunistiche che hanno contribuito ad istituire ZSC e ZPS”[57]. “Appare evidente che per la sua natura di fruizione degli ambienti naturali e di prelievo di risorse faunistiche, l’attività venatoria può indurre influenze negative significative, di tipo diretto e indiretto, sia nei confronti degli uccelli appartenenti o meno alle specie cacciabili, sia agli habitat naturali da cui dipende la loro sopravvivenza”[58].
La problematica della carenza di dati scientifici a supporto dei prelievi di fauna selvatica è evidenziata anche in una pubblicazione apparsa sulla rivista tecnico-scientifica ambientale dell’Arma del Carabinieri “SILVAE”: “La gestione venatoria attuata finora nel nostro Paese, è stata raramente impostata sui principi del prelievo sostenibile e ciò ha causato una mortalità “additiva” per le popolazioni naturali, causandone in molti casi la rarefazione e l’estinzione locale. Il risultato è che la caccia a specie quali la lepre europea, il fagiano e la starna viene effettuata in molte aree soltanto grazie ad interventi di immissione nel territorio di individui di allevamento o di provenienza estera, senza alcuna gestione dell’ambiente per favorire lo stabilirsi delle popolazioni naturali e soprattutto senza acquisire nessun dato sullo status e sulla dinamica delle popolazioni stesse”[59]. “[…] un errato prelievo potrebbe compromettere la sopravvivenza delle popolazioni, soprattutto se questa causa di mortalità si aggiunge ad altre cause naturali derivanti dalla perdita di habitat idoneo o da “catastrofi” naturali, ad esempio primavere-estati particolarmente siccitose ed incendi di grandi proporzioni (cfr. Genovesi, 2016). Di conseguenza, anche se il numero dei cacciatori risulta in diminuzione, è necessario un approccio complessivo per la gestione delle specie animali che prenda in considerazione la dinamica delle popolazioni, le condizioni ambientali e le possibili minacce per la conservazione delle popolazioni”[60].
Se Atene piange, Sparta non ride
Si è visto come, affinché si possa valutare la sostenibilità della caccia, è fondamentale una seria raccolta dei dati relativi all’attività venatoria ed una approfondita analisi degli stessi. Però, se del tutto incerti sono i dati relativi alle consistenze delle popolazioni prima dell’inizio della stagione venatoria, altrettanto generici (per usare un eufemismo) sono i quelli derivanti dai prelevamenti effettuati, per poterne misurane l’impatto. Certo non si potrà sostenere che i dati raccolti nei carnieri siano la rappresentazione reale di quanto avvenuto durante ogni battuta di caccia! Inoltre, esistono anche dei problemi sulla raccolta e, quindi, sulla successiva analisi degli stessi dati.
In assenza di una ben definita situazione iniziale dello stato di conservazione delle popolazioni cacciabili, cui si associa un impreciso dato relativo al prelievo venatorio, come si potrà mai valutare la reale sostenibilità della caccia? Tuttavia, in mancanza di elementi che possano provare scientificamente la sostenibilità dei prelievi venatori, comunque la caccia continua ad essere praticata: e questo è un vero punto di criticità.
Le specie cacciabili diminuiscono: vittoria o sconfitta?
L’elenco delle specie cacciabili si sta sempre più accorciando. A primo acchito, sembrerebbe trattarsi di un ottimo segnale, una aumentata sensibilità verso la fauna selvatica che si vuol proteggere. Invece si tratta solo di un mero rimedio tardivo, un provvedimento volto ad invertire una pratica dimostratasi disastrosa che fin lì si era autorizzata: nulla di empatico, solo dati. Inserire una specie fra quelle protette è il segno inequivocabile che la pressione su quelle comunità è divenuta ormai insostenibile. Ma per quali ragioni abbiamo provocato quella pressione tanto forte da causare il depauperamento della specie? I tempi moderni, caratterizzati da cambiamenti climatici, siccità, vasti, diffusi e frequenti incendi, inquinamento di aria, di falde acquifere e di terreni e uso di pesticidi, stanno trasformando gli habitat da rifugio in luogo particolarmente ostile. È senz’altro lecito chiedersi se sia davvero necessario incrementare la pressione sulle specie continuando a sostenere la pratica venatoria. Essa rappresenta il colpo di grazia inferto a quelle povere bestie che riescono ancora a sopravvivere alle calamità naturali e umane. La vita dei selvatici è bella e piena, ma dura e fatale. Perché rendergliela brutta e impossibile? Avere una percezione certa ed attuale della consistenza di determinate popolazioni è tutt’altro che semplic[61]. Quando rileviamo la sofferenza di una specie sotto il profilo demografico, perlopiù è perché i segni di quella situazione sono divenuti particolarmente evidenti e, quindi, lo stato di deterioramento degli equilibri della popolazione sono già avanzati. Solo a quel punto iniziamo ad attivarci per porvi rimedio, con lentezza, seguendo i tempi dell’apparato burocratico … e, intanto, continuiamo a gravare su chi null’altro chiede che poter vivere la propria bella e complicata vita.
L’attuale stato di conservazione dell’avifauna
Da uno studio pubblicato da Marco Gustin[62] si evince come l’attuale stato di conservazione dell’avifauna desti più di qualche preoccupazione. La tesi, che si fonda su informazioni scientifiche, pone in rilievo come la situazione sia così grave per alcune specie da rendere necessaria l’esclusione di quella fauna dalla lista delle specie cacciabili o la sospensione o la riforma dell’attività venatoria che riguarda l’avifauna a rischio.
L’insostenibilità dell’attuale modalità di prelievo venatorio, riguarderebbe le seguenti specie: allodola, pernice sarda, coturnice, pernice rossa, codone, moriglione, moretta, combattente, quaglia, folaga, beccaccino, pernice bianca, fagiano di monte, starna, marzaiola, tortora selvatica, tordo sassello, cesena, tordo bottaccio, pavoncella, beccaccia.
Queste specie sono particolarmente danneggiante tanto dal cospicuo numero di abbattimenti che le riguardano, sia dai periodi nei quali esse vengono cacciate. Come giustamente fa notare Gustin: “Una nota va dedicata anche ai tempi di caccia. È a nostro avviso opportuno, in generale, che l’attività venatoria sull’avifauna sia temporalmente reinquadrata e praticata (con periodi diversi a seconda delle specie) entro il periodo 1° ottobre – 31 dicembre, escludendo dall’esercizio venatorio i mesi di settembre e gennaio, attualmente inclusi, quantomeno generalmente, nel range temporale della cacciabilità in Italia. Nel caso del mese di settembre, va considerato che l’attività venatoria in questo mese insiste (in particolare durante la fase di preapertura venatoria), sulle popolazioni nidificanti, molte delle quali in cattivo o inadeguato stato di conservazione, come ad esempio per la Quaglia, la Marzaiola, la Tortora selvatica. Nel caso del mese di gennaio è dimostrato che per varie specie (anche di “ordini” molto diversi come anatre e turdidi) in questa fase temporale sono già in atto movimenti di ritorno ai quartieri riproduttivi, rispetto ai quali la Direttiva Uccelli (e la norma italiana di recepimento, l’articolo 18, comma 1bis) vietano tassativamente la caccia per motivi di ordine biologico e conservazionistico di primissimo ordine”.
Valide considerazioni o falsi miti
In definitiva, come abbiamo potuto osservare, le ragioni che portano a propugnare la sostenibilità o la necessità della caccia, sono sostanzialmente infondate. Si tratta di falsi miti utili solo a vestire d’importanza l’attività venatoria e a conferirle un qualche ragione legittimante. Se non fossero i cacciatori stessi la causa dell’“invasione” dei cinghiali, se non fossero costoro a seminare piombo uccidendo direttamente o indirettamente anche specie protette, se non fossero essi stessi i responsabili delle immissioni gli animali che poi sterminano per divertimento, se non fosse la caccia la concausa della diminuzione delle popolazioni di alcune specie tanto da far annoverare tra quelle protette, allora quelle tesi sostenute dalle associazioni venatorie potrebbero apparire un po’ più credibili.
Perché ancora oggi si pratica la caccia?
Perché è utile o perché “conviene”? Appare evidente che la caccia costituisca ancor oggi un bacino di consenso elettorale. Se la caccia fosse davvero necessaria per tutte le ragioni che propugnano i suoi sostenitori, oggi saremmo nel baratro. I dati dicono che nel 1980 i cacciatori erano oltre 1.700.000 mentre attualmente sembrerebbero essere “appena” 600.000 circa. Con la scomparsa di un esercito di oltre 900.000 cacciatori, benefattori per l’ambiente, dovremmo versare in una situazione disperata. E invece no! La prova, quindi, che non servono a nulla. La caccia serve solo a loro per divertirsi e per darsi importanza e, ai loro occhi, forse anche per rivestire un ruolo prestigioso di “sentinelle delle montagne” (come talvolta capita di ascoltare). Quel porto d’armi li eleva, quei travestimenti da Rambo li trasformano, quel fucile dà potenza e l’uccidere dà onnipotenza. Il tonfo dell’uccello deve dare loro emozioni straordinarie. Le grida di dolore dei cinghiali e il loro sangue che sorga deve farli star bene, evidentemente. E poi, quei cani che sono riusciti ad addestrare ai loro servigi devono dare proprio delle grandi e belle soddisfazioni. Ma una passeggiata con a famiglia nella natura, no? Niente sofferenza, niente morte, niente crudeltà ma serenità e pace con l’ambiente (habitat e comunità) e con sé stessi! La Comunità internazionale legifera sempre più in tema di protezione dell’ambiente; lo Stato recepisce; gli Enti territoriali che nel contesto che più conoscono e che dovrebbero tutelare, invece, sembrano spingere in senso opposto, accordando sempre più, sempre il massimo possibile, al mondo venatorio. Sembra che l’interesse degli amministratori locali sia più orientato a non scontentare le richieste del corpo elettorale che agire nel solco della sensibilità ambientalista che sempre più (ma troppo lentamente) sta espandendosi nelle coscienze di tutti. È qui che le associazioni ambientaliste dovrebbero far sentire forte la propria voce, potendo davvero incidere in chiave di tutela dell’ambiente.
8.Caccia e associazioni ambientaliste
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- “Politica venatoria”: il punto 6 del Nuovo Bidecalogo del CAI
“Pur essendo senza dubbio auspicabile che in un prossimo futuro il rapporto dell’uomo con la natura non debba più in nessun caso presupporre forme di violenza gratuita, si constata però che oggi le attività della caccia rappresentano ancora per alcuni un modo per avvicinarsi all’ambiente naturale.
L’attività venatoria deve essere esercitata entro i limiti delle norme vigenti, comunitarie e nazionali. La violazione di tali norme da parte dei cacciatori, e in particolare il bracconaggio, devono essere contrastati duramente, assicurando ai Corpi di vigilanza un’adeguata dotazione di uomini e mezzi.
La reintroduzione di specie autoctone e il ripopolamento di specie animali fortemente ridotte devono essere incoraggiati su tutti i territori di media e alta montagna, secondo criteri attentamente valutati sotto il profilo scientifico, ad evitare di generare ulteriori e ancor più gravi squilibri.
Di pari passo devono essere valutate da un punto di vista scientifico le pratiche che consentono di recuperare forme virtuose di convivenza tra l’uomo e la fauna selvatica: incentivazione dei corridoi biologici, definizione delle regioni biogeografiche, salvaguardia della Rete Natura 2000, tutela della biodiversità”[63].
Con tutti i danni che l’attività venatoria reca all’ambiente, definirla “un modo per avvicinarsi all’ambiente naturale” sembra davvero un artificio per continuare a mantenere le tessere dei soci che sono dediti alla caccia. Siamo in tanti, tra i soci CAI, che riteniamo inaccettabile una tale associazione, noi che nel bosco parliamo a bassa voce per non disturbare, noi che sul terreno “non lasciamo mai niente, se non, per brevissimo tempo, le nostre orme che il vento ben presto cancellerà” (cit. Reinhold Messner[64]). C’è chi quella violenza la giustifica o la tollera; c’è chi, come chi scrive, non la sopporta e la ritiene ingiusta e particolarmente cruenta. Non sorprende, quindi, che alcuni si spingano ad associazioni concettuali molto forti: “non possiamo accettare che le attività venatorie in qualche modo rappresentino “un modo per avvicinarsi all’ambiente naturale”. Per me equivale a dire che anche lo stupro è un modo per avvicinarsi al rapporto uomo-donna. Che lo stupro ci sia è un dato di fatto, ma che sia anche vagamente accettabile perché tramite suo qualcuno arriva al rapporto uomo-donna, questo è fermamente indifendibile. Indifendibile, grezzo, violento e barbarico è dunque anche solo accennare a un riconoscimento dell’attività venatoria come “tramite” ai valori dell’ambiente naturale, perché quel tramite a mio parere distrugge e non costruisce, perché la caccia sottrae all’ambiente naturale della fauna da ammirare e studiare”[65].
Il ruolo delle associazioni ambientaliste nella società e la posizione del CAI sulla caccia
Ciò che ci si aspetta dalle associazioni ambientaliste è un’appassionata attività indirizzata alla conoscenza e divulgazione della bellezza e dell’importanza della natura, alla conservazione e alla tutela degli habitat e delle forme di vite che lo abitano. Si vorrebbe che le attività convergessero verso una sensibilizzazione dell’uomo rispetto alle unicità e fragilità dell’ecosistema, sconosciute ai più ancor oggi. Così facendo, si potrebbe aspirare a trovare una modalità di convivenza, tra tutti gli esseri in completo equilibrio e rispetto reciproco. Non è questo che vogliamo? Un uomo in pace con sé stesso e con tutto ciò che lo circonda; un habitat che non debba soffrire le azioni antropiche; le comunità selvatiche che possano vivere liberamente, senza pressioni e/o manipolazioni.
Le associazioni ambientaliste devono giocare, quindi, un ruolo di primo piano nella società nel dare impulso ad un cambiamento ecosostenibile. Difendere l’ambiente non significa solo “resistere” ai progetti di nuova fattura che si ritengano dannosi per l’ecosistema. Tutelare la nostra Casa comporta anche il dover analizzare ciò che è già in essere e che necessita di essere armonizzato con le esigenze, le conoscenze e le sensibilità contemporanee. Rispetto al nostro tema, la “caccia”, il CAI si limita a sostenere che essa rappresenta un modo per l’uomo di fruire della natura ma non ci dice se essa sia cosa buona o cattiva, sostenibile o meno. Occorre avere il coraggio di promuovere e compiere un cambio di rotta rispetto al passato. A ciò sono votate le associazioni ambientaliste. Fino ad ora la caccia ha rappresentato fondamentalmente una “tradizione”, un modo per uscire di casa, per stare con gli amici, per avere un interesse, per compiacersi delle proprie abilità nell’addestrare un cane e nel colpire un bersaglio, per fare i gradassi a chi ha abbattuto la preda migliore. Nella società di soli 30 o 40 anni fa la caccia era un “must”, ma era un’altra cultura, c’era un’altra sensibilità, altre erano le conoscenze. Altre erano le esigenze, i ritmi. Oggigiorno quel mondo non esiste più. Ve n’è un altro col quale occorre relazionarsi. Com’è possibile che quest’attività barbara – così percepita dai più, secondo la sensibilità moderna – e anche deleteria per l’ambiente possa continuare a fare scempi? E com’è possibile che vi siano alcune associazioni ambientaliste che della battaglia contro la caccia ne facciano un simbolo ed altre che preferiscono non vedere, per non decidere? Chi sbaglia?
Le associazioni ambientaliste rivestono un ruolo determinante nei dibattiti che riguardano l’ecosistema. Al di là del peso che possano avere nella politica italiana (e non sembra ne abbiano molto) nel far convergere il legislatore verso scelte ecosostenibili, gli ambientalisti assumono, comunque, un ruolo decisivo nel sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tematiche afferenti la tutela dell’ambiente. Solo così, con un movimento ampio che parte dalla popolazione e una diffusa consapevolezza tra la gente, si potranno ottenere risultati soddisfacenti. Ed ecco, ancora una volta, che è doveroso sottolineare la necessità che una grande associazione ambientalista come il CAI (forse la più grande in Italia) assuma una posizione chiara sulla caccia. Diffondere tra gli oltre 300.000 soci un messaggio coraggioso di rottura con alcune tradizioni del passato non più sostenibili e di affrancamento dalle scelte “politiche” di tesseramenti, potrà forse indebolire l’associazione sotto il profilo dei numeri ma darà certamente al sodalizio nuova forza e un nuovo slancio, perché si sarà liberata da un grande tabù. Un’associazione formata da così tanti iscritti aiuterà a rafforzare il fronte per la tutela degli animali e degli habitat, ma anche dell’uomo.
Le associazioni ambientaliste, come si diceva, stanno assumendo sempre più un ruolo decisivo nella battaglia contro la caccia, ben consapevoli che essa costituisca una violenza, un abuso ai danni dell’ambiente. Questo è il ruolo che devono giocare gli ambientalisti: e quale altro, se non la tutela della Casa nostra e delle altre specie!
Al di fuori del contesto relativo all’attività venatoria, il CAI esprime delle considerazioni altamente condivisibili: “[Il CAI, n.d.r.] Individua invece nell’autodisciplina e nel comportamento responsabile ed ecocompatibile di chi pratica tali attività il solo modo per evitare che si creino situazioni di rischio per sé, per gli altri e per l’ambiente naturale”. Tale assunto è tratto dal “Bidecalogo – Parte seconda – Politica di autodisciplina del CAI – Considerazioni generali”. Nulla da eccepire, anzi, una responsabilizzazione dei singoli esemplare, volta a suscitare elevato ed appassionato impegno civile e sociale. Ma come si coniuga quell’enunciato con la compatibilità tra il modo di avvicinarsi alla natura e l’andare a caccia. Certo, il CAI non si dichiara favorevole, ma neanche contrario. Non si dichiara, tace e, così facendo, velatamente tollera (o approva). Peggio ancora. Chiedesse ai soci cacciatori in maniera esplicita di non creare “situazioni di rischio per sé, per gli altri e per l’ambiente naturale”. Li sensibilizzasse affinché tengano un “comportamento responsabile ed ecocompatibile”. Invece no, il CAI “spara” nel mucchio per non “ferire” nessuno e, così, nulla cambia.
Si badi bene, le osservazioni critiche e schiette fin qui espresse sull’approccio del CAI alle questioni che riguardano l’attività venatoria non possono e non devono in alcun modo mettere in ombra i grandissimi meriti del Sodalizio. Ormai alle soglie dei 160 anni dalla sua fondazione, il CAI ha dato un contributo inestimabile alla divulgazione e al mantenimento della cultura della montagna, alla promozione dei territori e alla loro conoscenza, alla sensibilizzazione delle popolazioni alle bellezze della nostra terra, alla tutela di taluna fauna selvatica.
Non solo alberi, corsi d’acqua, monti, lupi e aquile, quindi, ma tutte le comunità della fauna selvatica sono meritevoli di tutela e, forse ancor di più, di rispetto.
Ci si augura che presto il dibattito sulla caccia possa prendere piede, per la tutela dell’ambiente in senso lato. Parimenti, ci si augura che anche altri grandi temi– come quello riguardante l’impatto ambientale causato dagli allevamenti intensivi – possano essere oggetto di ampia discussione all’interno del sodalizio. Di nuovo, si tratta si argomenti scomodi e divisivi perché toccano da vicino quelle abitudini quotidiane della gran parte delle persone e che sono difficili da discutere senza lasciare il segno.
Conclusioni
Alla luce degli elementi raccolti in questo lavoro, che traggono spunto da fonti autorevoli, emerge chiaramente come l’impatto ambientale della caccia in termini di inquinamento, “incidenti di caccia” e pressione faunistica sia ormai evidente e, probabilmente, non più sostenibile.
Il numero stesso dei cacciatori è, fortunatamente, in declino. Ciò sta avvenendo sia per la rinnovata sensibilità riguardo i sentimenti nei confronti degli animali, sia perché la società offre infinite alternative di svago, sia per l’avanzare dell’escursionismo che propone un modo di fruire della natura sano, non cruento e rispettoso, sia per i costi che i cacciatori devono sostenere per l’esercizio della pratica venatoria, i pericoli concreti ai quali ci si espone, un apparato normativo più vincolante. Un ulteriore elemento demotivante potrebbe essere rappresentato dalla riduzione delle specie cacciabili. Insomma, a fronte di queste ed altre ragioni, sembra proprio il crepuscolo della caccia sia un fatto inevitabile. Tante associazioni ambientaliste stanno prendendo posizioni contro caccia in maniera sempre più decisa, portando argomentazioni scientifiche, diffondendo comunicati e documenti, organizzando manifestazioni e, addirittura, promuovendo referendum (2021, Comitato “Sì aboliamo la caccia”).
Fortunatamente la caccia si sta estinguendo da sola, lentamente, ma lasciando sul terreno ancora troppa sofferenza e ingiustizia.
Quando tutto sarà un brutto ricordo, quando non ci saranno più interessi politici e ragioni culturali a perorare l’esistenza della caccia, si constaterà con chiarezza se essa abbia davvero una qualche utilità per l’ambiente, se sia stata la soluzione dei problemi e se i cacciatori siano stati realmente delle “sentinelle della montagna” (come amano definirsi). O, forse, si scoprirà che la caccia è stato un grande bluff, alimentato per il godimento di pochi. Si scoprirà che essa non ha alcun utile ruolo nella gestione della fauna selvatica ma, invece, ha prodotto solo effetti dannosi. Caduto gli muro degli interessi, si vedrà come i cacciatori siano stati solo degli stupratori di comunità e habitat, tutt’altro che sentinelle.
“Quando non ci saranno più gli interessi politici ed economici e le ragioni “culturali” a perorare l’esistenza della caccia, quando quel muro cadrà, allora tutti potranno vedere i danni che essa ha cagionato agli habitat, alle comunità, all’uomo”.
Luigi Miriello
APPENDICE
Tutela della fauna selvatica vs rispetto per la fauna selvatica
di Luigi Miriello
Rispetto per la sua natura, rispetto per la sua vita a prescindere dal valore che noi le diamo. Già, perché un valore lo ha già di per sé! Quale valore ha un lupo e quale un cinghiale? Uno ha il sangue più nobile di un altro? Ahinoi, misuriamo tutto con il metro del nostro egoismo e dei nostri preconcetti. Ci attacchiamo a tutto pur di sostenere le nostre convinzioni. Il lupo è nobile, è il re dei nostri boschi, è il simbolo della forza, del coraggio, della libertà, del vivere selvaggio ed è anche vestito di una certa simbologia spirituale, un’aurea francescana. Pure l’aquila è nobile, è la regina dei cieli. E così si procede fra miti, leggende, riferimenti religiosi e chi più ne ha, più ne metta. Lontano è ancora quel momento in qui l’uomo sarà capace di scendere dal trono che si è autocostruito e guarderà dalla giusta altezza la natura che lo circonda e di cui fa parte e capirà che ogni essere ha una dignità, una sacralità, una eccezionalità, un diritto ad esistere che non è misurabile e non va giudicato, ma dev’essere solo ammirato e rispettato.
Vi siete mai ritrovati soli nei boschi? Io sì, da solo li ho attraversati per più giorni consecutivi, lontano dagli uomini. Sapete, lì, quanto vale la vita di un uomo? Quanto quella di un uccello. E quella di un uccello? Quanto quella di un albero. E quella di un albero? Quanto quella di una roccia. Lì, nel bosco, nessuno è più importante di qualcun altro o di qualcos’altro. Non c’è nessuno che dia all’uomo una particolare importanza, una primazia. Nessuno lo riconosce re di alcunché. È solo la nostra autoreferenziazione che ci pone al vertice di ogni cosa, che ci assurge a semidio, col potere di vita e morte su tutto il pianeta. Ma, in realtà, non siamo semidio, per fortuna, e i nostri “poteri” non esistono; al più, siamo semi-uomini, forti della nostra arroganza e la nostra violenza. E ci ergiamo a paladini che tutelano quando, invece, se ci limitassimo a rispettare, renderemmo senz’altro un servizio migliore!
Cacciatori, quelli che «sparerebbero pure alla colomba dello Spirito Santo»[66]
Se attività sadiche sono legalizzate e incentivate dalle istituzioni, se vengono definite salutari da organismi internazionali, beh, allora la distinzione tra giusto e ingiusto, lecito ed illecito, civile ed incivile non può che collassare
di Annamaria Manzoni
Per quanto non ci si possano aspettare notizie confortanti dalla zone di caccia, dove, con armamentario da missione bellica, c’è chi va a braccare, ferire, uccidere esseri senzienti, il regolare bollettino di guerra non può non lasciare esterrefatti: prescindendo per un momento dalle vittime designate, gli animali, nel corso delle ‘stagioni venatorie’ morti e feriti umani occupano cronache quotidiane: per il fuoco amico, che colpisce i compagni, per quello amicissimo, sbadatamente diretto contro il proprio piede o la propria spalla, e per quello per nulla amico per cui a caderne vittima sono gli altri, i passanti casuali. Tra questi ultimi trovano posto persone impallinate perché scambiate per fagiani; altri così mimetizzati da suggerire la presenza di un cinghiale, presenza talmente desiderata da allucinarla nel pensiero; ci sono bambini colpiti mentre giocavano in cortile; braccianti impegnati nella raccolta di frutta, atterrati l’uno dopo l’altro come birilli.
E ci sono anche bambini nel ruolo di discepoli portati con sé per un precoce imprinting, aggirando spensieratamente non solo norme di legge, ma soprattutto minimale senso di responsabilità genitoriale. E si può continuare con i danni collaterali, accidenti imprescindibili di ogni guerra che si rispetti, che, nella forma di infarto o grave malore, colpiscono cacciatori di solito un po’ agé, il cui fisico, ahimè, come per altro in tante cose della vita, non sostiene debitamente una inalterata passione dei sensi.
Insomma i 21 morti e 59 feriti umani della passata stagione e quelli, il cui numero in continuo aggiornamento ha già cominciato a marcare l’inizio di quella attuale appena aperta, meriterebbero un interesse di cui non si vede traccia nelle istituzioni: la caccia non solo non si tocca, costi quel che costi, ma continua a godere imperterrita delle sovvenzioni destinate agli sport, perché tale è considerata; considerazione incredibile se giudicata non solo in base ad un barlume di senso etico per cui non vi può essere nulla di sportivo, nel senso di leale, corretto e rispettoso, nell’andare ad uccidere esseri indifesi, ma neppure volendosi attenere alla definizione letterale di ‘sport’ data dalla Commission of the European Communities WHITE PAPER ON SPORT (luglio 2007), fatta propria dal CONI, secondo cui il termine si riferisce a «qualsiasi attività fisica che …….. abbia per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizioni di tutti i livelli».
Le ‘relazioni sociali’ e le ‘condizioni fisiche’ così care all’attività venatoria sono quelle di cui sopra, che, per imperizia, imprudenza, superficialità, incompetenza, discontrollo emotivo, deliri di onnipotenza, dato l’accesso, per certificata idoneità psicofisica, al fucile caricato a pallettoni, comportano l’evenienza che tali relazioni risultino mortifere, quindi non esattamente in fase di implementazione e sviluppo come vorrebbe l’autorevole libro bianco: non esiste stagione di caccia che non si concluda con decine di morti e un numero di gran lunga superiore di feriti [per conoscere i numeri esatti, si consulti il sito www.vittimedellacaccia.org, che possiede archivi dal 2007 e aggiorna costantemente i dati]: il che testimonia la natura niente affatto accidentale delle vittime umane, che sono invece intrinseche alle dinamiche venatorie.
Quanto all’ipotizzato miglioramento delle condizioni psichiche, beh il discorso, nella sua complessità, risulta quanto mai interessante. A partire dalla considerazione che la caccia, per gli occidentali, è attività di svago e fonte di piacere, alternativa ad una partita a tennis o a calcetto, per intenderci; le motivazioni reali che ne sono alla base sono offerte generosamente dai diretti interessati, i cacciatori, i quali, nei loro siti, la celebrano in estasi con espressioni che diventano mantra: palpitante avventura, eccitazione, magia, ardore, passione, ebbrezza, euforia: se non altro si deve dar loro atto di ottime competenze introspettive, nell’autoriconoscimento di emozioni e stati d’animo.
Temendo comunque di trovare ben poca condivisione al di fuori della loro rassicurante e autoreferenziale cerchia, e ben sapendo di quanto la loro passione venga connotata, da una fiumana in crescita di detrattori, come pesante disvalore anziché estasi mistica, i cacciatori fanno poi seguire giustificazioni ideali, riferite all’amore per la natura, al dovere di civiltà e alla missione ecologica di cui si sentono portatori: il tutto sintetizzato nel concetto di ‘caccia buona’, ossimoro linguistico al servizio della mistificazione della realtà, a cui ci sarà sempre qualcuno disposto a credere o a fingere di farlo: un po’ come all’idea di ‘amore criminale’ insomma: quello per cui si accoltella e magari poi anche si brucia quella che si ama tanto… .
La difesa ad oltranza della loro attività suggerisce ai cacciatori di bypassare prudentemente il punto di vista delle vittime: grandi assenti, nelle loro descrizioni, sono gli animali, il loro terrore, la disperata fuga per la salvezza, il ferimento, gli spasmi, l’agonia talvolta interminabile, la disperazione di cuccioli vicino alle madri morte, l’annichilimento delle madri davanti al corpo immobile dei figli.
Assenti sono il cervo senza scampo che chiede grazia con le sue lacrime, nelle parole di Montaigne; la cerva che assiste il maschio ferito, con la testa levata al cielo e l’espressione piena di cordoglio, in quelle di Tolstoj; quelli che sentiamo ansimare increduli nei filmati dai luoghi della carneficina: volpi stanate da buche profonde, rifugio vano da cani che le estraggono strappando loro la pelle, e aprono la strada al cacciatore di turno, appostato nei dintorni.
E’ un guardiacaccia, Giancarlo Ferron [“Il suicidio del capriolo”, Giancarlo Ferron; Biblioteca dell’Immagine 2003], che racconta di caprioli in fuga, inseguiti per giorni, che corrono con la schiuma alla bocca, senza più fiato, tremanti e sfiniti con la bocca spalancata per la fame d’aria; racconta di cacciatori che hanno due o tre mute di cani, per sostituire quella sfiancata nell’inseguimento di un capriolo, che lui però di sostituti non ne ha; ancora racconta di animali che si suicidano buttandosi dalle rocce, pur di sottrarsi allo sbranamento annunciato dai latrati che si fanno più vicini. Nessun animale, lo sappiamo bene, può sottrarsi alla furia omicida dei cacciatori, che siano elefanti o uccellini di pochi grammi: «sparerebbero pure alla colomba dello Spirito Santo», sentenzia un bambino nel colorito spirito napoletano [‘Nessun porco è signorina’, Marcello D’Orta; Mondadori 2008], che bene compendia l’impulso ad andare ad ammazzare esseri di ogni genere e taglia, che volino, corrano, che siano miti o aggressivi: purché respirino.
La descrizione degli ‘annessi e connessi’ dell’attività venatoria può sfidare per tasso di crudeltà quella che trasuda dai tanti musei della tortura, sparsi nelle nostre città, a imperitura testimonianza della profondità del male che l’essere umano sa creativamente produrre: ci sono uccellini impigliati nelle reti, quelli accecati così da richiamare con il canto i loro consimili; quelli ingabbiati per il medesimo scopo; c’è l’infierire ignobile contro animali spossati dalla migrazione o dallo sforzo di sopravvivere a inondazioni, terremoti o altre calamità.
Addestrare i cani ad estrarre a morsi animali dalle tane per sparargli addosso è attività per la cui connotazione il linguaggio non dispone di aggettivi appropriati; non ne dispone per definire il piacere di uccidere orsi in letargo; oppure elefanti o leoni dal sedile di un elicottero; ulteriori perversioni, già diffuse in altri continenti, tra cui quella di sparare ad animali esotici, intrappolati in stretti recinti (canned hunts) dopo la dismissione da circhi e zoo o cresciuti come pet una volta sottratti da neonati alle madri, non sono ad oggi penetrate nel nostro territorio. Ma non c’è da preoccuparsi, perchè il turismo venatorio supplisce generosamente a questo fastidioso limite: basta pagare, dal momento che i capi uccisi devono giustamente essere remunerati con generosità ai legittimi proprietari.
Un discorso a parte meriterebbero poi altre vittime animali, i cani, trasformati in aiutanti killer mediante un addestramento vigoroso: le cronache raccontano dell’abbandono e della soppressione dei ‘soggetti’ non idonei, della detenzione in gabbie che sono prigioni per tutto il tempo non destinato alle battute, di quelli da annoverare tra le vittime accidentali di colpi sparati a casaccio.
A completamento, è una novella cacciatrice, Catia, a fornire nella sua intervista on line un grazioso particolare, quello tanto diffuso da meritare un termine ad hoc, la frustata, vale a dire una fucilata che abitualmente i cacciatori sparano nel sedere di cani disobbedienti o lenti nell’apprendimento (‘la famosa frustata’, dice), metodo di addestramento da cui lei però si vanta di smarcarsi [http://www.sabinemiddelhaufeshundundnatur.net/ale/caccia_intervista.html].
Ora, oltre a spietatezza, soprusi, crudeltà, esplode in tutto il meccanismo venatorio un ancestrale bisogno di sangue, che spesso esonda in un crescendo di esaltazione, in un delirio fuori controllo, che lascia sul terreno vere e proprie carneficine: non basta mai, tanto che leggi pur tanto permissive, al servizio di una più che compiacente politica, devono porre dei limiti al tempo del cacciare e al numero delle vittime da uccidere, supplendo con le restrizioni normative all’assenza di quelle etiche.
Non a caso, il parallelismo tra caccia e guerra è stato colto in ogni epoca, essendo l’una e l’altra attività connesse dalla stessa essenza basata su uccisioni di massa: la caccia è sempre stata considerata una raffigurazione ritualizzata della guerra [argomento trattato in ‘Finché non lo vedrai cadere esangue’, in ‘In direzione contraria’ di Annamaria Manzoni, Sonda2009], un sostituto ugualmente sanguinario, ma tanto più rassicurante vista la sproporzione delle forze in campo, nonché la non belligeranza degli animali che, nemici inconsapevoli di esserlo, cercano solo di fuggire.
Se la causa più profonda della reiterazione delle guerre, come diceva già Freud, sta tutta nelle pulsioni aggressive e distruttive, insite nell’uomo, altrettanto si può sostenere a proposito della caccia, l’una e l’altra da porre in contesti in grado di fare emergere la nostra ombra più oscura, le nostre parti più nascoste e abiette.
Alla luce di tutto ciò, si impone la necessità di scrutare di più nelle emozioni e nei pensieri dei cacciatori [si veda ‘Ai cacciatori il posto d’onore’ in ‘Sulla cattiva strada’ di Annamaria Manzoni; Sonda 2014], alla ricerca dell’origine di quel vuoto etico che è il brodo di cultura della loro passione; si viene così a contatto con elementi che dovrebbero essere fonte di grande preoccupazione per chiunque abbia a cuore la condizione psichica delle persone, come sostiene di fare il CONI: nei loro comportamenti prepotenti e brutali la fa da padrona quella assenza di empatia che esonda in psicopatia, nel piacere dichiarato di essere artefici dell’estrema sofferenza e della morte di esseri senzienti.
Soprattutto appare virulenta una forma grave di sadismo, nell’accezione psicologicamente corretta del termine, che lo definisce quale ‘tratto del carattere proprio di chi si compiace della crudeltà’, tratto innato o collegato ad una risposta a frustrazioni e umiliazioni; diretto alla ricerca di un piacere generato dal provocare dolore o dal senso di potenza personale che deriva dalla capacità di sopraffare l’altro [‘Nuovo Dizionario di Psicologia’, Umberto Galimberti, Feltrinelli 2018].
Esiste anche un’altra accezione di sadismo, che è strettamente connessa ad una perversione della sessualità: direzione in cui vanno espandendosi studi sulla personalità dei cacciatori, nel cui inconscio, secondo alcuni autori, si troverebbe un vaso di Pandora di elementi sessuali repressi. Lo afferma la psicologa clinica Margaret Brooke-Williams, secondo cui il sentimento di potenza che l’attività venatoria comporta è in grado di offrire temporaneo sollievo al disagio esperito dai cacciatori. Teoria suffragata dallo psicologo sociale Rob Alpha, secondo cui nella pulsione sessuale e nella compulsione a cacciare e uccidere vengono attivate le stesse aree cerebrali. Alle spalle, una tradizione corposa, dal momento che già lo psichiatra Karl Manninger (1893-1990) sosteneva che il sadismo tipico della caccia rappresenta le energie distruttive e crudeli dell’uomo verso le creature più indifese [https://www.feelguide.com/2016/11/07/hunting-linked-to-psychosexual-inadequacy-the-5-phases-of-a-hunters-life-of-sexual-frustration/].
La caccia, come la guerra, dà forma a pulsioni aggressive, a cui vengono dati significati di comodo, crea dipendenza e desiderio di ripetizione: si va ad uccidere spinti da aspetti della propria personalità, e poi è la ripetizione stessa dell’azione di uccidere esseri indifesi a modificare lo psichismo di chi lo fa, dal momento che nessuna esperienza può essere vissuta senza che ne restino tracce in grado di modificarci.
In attesa di ulteriori spunti dalle ricerche in corso, è interessante sottolineare che quello della caccia è un territorio in cui la prevalenza maschile raggiunge percentuali bulgare e in cui l’accesso delle donne è visto con l’evidente fastidio che sempre provoca l’ingresso femminile in aree in cui il machismo è tratto distintivo: non è casuale che il primo convegno internazionale di donne cacciatrici, tenutosi a Riva del Garda lo scorso anno, sia stato completamente ignorato dai colleghi maschi.
Un po’ diversa da quella italiana la situazione nei Paesi nordici, dove la presenza femminile nell’universo venatorio è maggiore, in sintonia cona la convinzione che parità significhi adattamento agli standard maschili, standard che, in quei Paesi, sono incistati in una cultura, che, per esempio, celebra e ritualizza l’ingresso dei bambini nell’età adulta con il dono del fucile e la partecipazione alla prima battuta: “grande uguale cacciatore” insomma o vede l’obbligatorietà del servizio militare senza differenze di genere. Il discorso porta lontano, ma il parallelismo tra caccia e guerra, unificate dal comune uso delle armi, dalla disponibilità ad uccidere, dall’assunzione di una filosofia di vita aggressiva, è innegabile punto di partenza dei necessari approfondimenti.
Se non c’è pensiero che aiuti le vittime animali della caccia a sottrarsi all’orgia di violenza di cui devono subire l’inenarrabile dolore, urge comunque una rivisitazione della realtà: se attività sadiche, tese alla sopraffazione, al sangue e alla morte di vittime inermi, sono legalizzate e incentivate dalle istituzioni, se vengono definite salutari da organismi internazionali, se sono giudicate utili al miglioramento delle condizioni psichiche e all’implementazione delle relazioni sociali di chi le pratica, beh, allora la distinzione tra giusto e ingiusto, lecito ed illecito, civile ed incivile non può che collassare, con tutte le conseguenze del caso.
La mistificazione in atto è implicitamente sostenuta in tanti modi: per esempio dalla vendita stessa delle armi accanto agli sci o ai costumi da bagno nei negozi sportivi, giusto per sdoganare l’idea che farsi una nuotata o massacrare un cinghiale è solo una questione di gusti individuali. Per non parlare dell’ingresso sciagurato nelle scuole di cacciatori che si presentano quali testimonial della natura e, udite udite, difensori degli animali.
Anche da qui, dalla improrogabile rifondazione di un linguaggio, che sia teso a comunicare e non a falsificare la realtà, è necessario ripartire, se vogliamo contrastare l’espressione della parte più oscura di noi, quella che anche nella caccia trova ideale terreno d’espressione, strenuamente difesa da una politica sempre colpevolmente pronta a sacrificare l’etica all’interesse.
I controlli sulle attività venatorie
di Andrea Rutigliano[67]
“Invece va osservato come la frequenza dei controlli venatori sia risibile se comparata al numero e alla presenza dei cacciatori sul territorio. Frequenza e qualità che andrebbero quindi aumentate, se non fosse che quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni è uno smantellamento progressivo del debole sistema di controlli e un allargamento delle maglie dell’attività venatoria. Invece di rafforzare e professionalizzare la vigilanza, di rendere le pene un reale deterrente (le ammende non sono più aggiornate dal 1992), di stabilire una presenza minima di vigilanza sul territorio almeno nelle aree a più alta frequenza di bracconaggio, di estendere le funzioni di polizia giudiziaria alle GVV, al fine di allargare la platea degli organi di controllo, quello che l’ultimo governo si è riproposto di fare è smantellare o ridurre ai minimi termini la polizia provinciale, assorbire il CFS all’Arma dei Carabinieri con il rischio di perdere le specificità ambientali dei Forestali, introdurre la possibilità di non procedere per i giudici davanti a “reati bagatellari” (fra cui tutti quelli di caccia), aprire di fatto la caccia nei parchi nazionali come forma di “controllo faunistico”, a discrezione degli enti parco (al cui interno si sono insediati negli anni numerosi esponenti del mondo venatorio), aprire la caccia agli ungulati tutto l’anno (nel caso toscano), o aprire la caccia a specie protette (nel caso Trentino-Alto Adige). Ci si chiede se alle spalle vi sia una minima analisi dei benefici ambientali e per la biodiversità dietro a tutti questi provvedimenti o non piuttosto una volontà di svendere il patrimonio naturale italiano al mondo venatorio, come forma di fare cassa o per convenienza politica. Allo stesso tempo ci si chiede se serva raccogliere dati per iniziare a riempire il sistematico vuoto di informazioni che circonda la caccia (quanti sono i cacciatori? quanti sono i controllori? quanti esercitano veramente i controlli? quanti e quali animali sono uccisi ogni anno?), se poi la politica non ha bisogno di informazioni per decidere”.
La situazione del bracconaggio in Italia
di Giovanni Malara
L’esperienza acquisita in tanti anni di volontariato antibracconaggio consente di stilare un bilancio sulla situazione di effettiva tutela della fauna selvatica in Italia negli ultimi anni, dopo la soppressione del Corpo Forestale dello Stato. E di constatare purtroppo, con grande amarezza, che il contrasto al bracconaggio – che di quella fauna costituisce una delle principali minacce – non ha mai conosciuto nel nostro Paese una situazione così precaria qual è quella odierna.
L’attuale livello dei controlli venatori è penoso, a meno che non si faccia riferimento a quelli meramente formali: possesso della licenza di caccia, annotazioni sul tesserino venatorio ecc. Se poi ci si riferisce ad alcune regioni meridionali, come la Campania, la Puglia, la Calabria e la Sicilia la situazione diventa addirittura drammatica.
Per avere un quadro più preciso, che in questa sede sarebbe impossibile descrivere, si rimanda a “Gli illeciti ai danni della fauna selvatica”, manuale pubblicato dal Gruppo Adorno ODV[68].
L’inadempimento degli impegni assunti dal Governo Italiano sulla lotta al bracconaggio e le conseguenti violazioni della Direttiva Uccelli sono stati oggetto di una dettagliata denuncia che ho trasmesso alla Commissione Europea nel marzo 2022. I contenuti della denuncia non possono ovviamente essere resi noti prima che la Commissione abbia svolto la propria istruttoria e si sia pronunciata su questa come su altre denunce presentate da più parti e tutte aventi ad oggetto la grave situazione della caccia in Italia.
Chiamata in causa è anche la normativa italiana che regolamenta l’attività venatoria e le sanzioni previste per chi uccide o cattura esemplari della fauna selvatica in violazione delle leggi vigenti.
Spesso sulla stampa si legge della denuncia penale di un bracconiere e che questi rischia una condanna fino a un anno di arresto. L’ignaro lettore è allora naturalmente portato a pensare: “Gli sta bene, ha ucciso un’aquila o uno scoiattolo e adesso finirà in carcere!” E lo vede già in manette, come avviene per i bracconieri che in Kenya uccidono i rinoceronti per rivenderne i corni.
Nulla di più clamorosamente ingannevole!
La parola arresto in questo sventurato Paese, infatti, contraddistingue i reati contravvenzionali. Significa che, se proprio gli va male, il bracconiere incastrato mentre trasportava un’aquila che aveva in precedenza ucciso pagherà una multa di 516 euro, la cosiddetta oblazione, pari più o meno a una multa per divieto di accesso in ZTL. Se invece gli va bene e non viene ammesso al pagamento dell’oblazione, il bracconiere non pagherà nulla, in quanto subirà un processo che inevitabilmente si prescriverà entro i cinque anni dal fatto senza che si giunga ad alcuna condanna.
Anche questo sistema sanzionatorio, che definire inefficace è eufemistico, è oggetto di denunce alla UE, in quanto i cacciatori e i loro tantissimi politici di riferimento si oppongono strenuamente ad ogni inasprimento delle sanzioni e alla trasformazione delle contravvenzioni in delitti (delitti per cui ad esempio vengono perseguiti coloro che maltrattano gli animali d’affezione).
A questa situazione tentano di porre rimedio in tanti. Non si possono non citare, ad esempio, le guardie volontarie del WWF, che in tante regioni svolgono un’opera encomiabile di individuazione e denuncia dei reati di bracconaggio. Lo stesso Gruppo Adorno, minuscola associazione fondata proprio per tentare di contrastare il bracconaggio, ha ottenuto nel primo anno di vita, dal marzo 2021 al marzo 2022, risultati estremamente significativi. Nel corso di decine di interventi specifici svolti dai volontari del Gruppo sono state complessivamente segnalate alle Forze dell’Ordine 52 persone, 44 per la caccia e 8 per la pesca con strumenti non consentiti.
Nel dettaglio denunciati 35 cacciatori, responsabili di diversi reati come l’uso di richiami elettroacustici vietati, l’abbattimento di specie protette o l’attività venatoria in aree protette. Inoltre sono stati segnalati ben 9 uccellatori, tutti intenti a catturare uccelli con reti di diversa tipologia.
In totale, nel corso dei suddetti interventi, le Forze dell’Ordine hanno sottoposto a sequestro circa 650 esemplari di uccelli e mammiferi, di cui 39 vivi.
Ma si tratta di gocce in un mare di illegalità. Fin quando non sarà congegnato e messo in pratica un efficace sistema di controlli che sia uniformemente diffuso su tutti i territori; fino a quando l’intervento sarà demandato alla buona volontà di singoli operatori di polizia giudiziaria, con la conseguenza che i bracconieri troveranno comodo spostarsi in territori vicini e non controllati, che costituiscono la stragrande maggioranza; fino a quando non verranno emanate norme cogenti, che portino all’automatica revoca della licenza di caccia per chi si rende responsabile di gravi atti di bracconaggio, la tutela della fauna selvatica in Italia resterà una chimera.
Riferimenti Bibliografici e Sitografici
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Ringraziamenti
I primi ringraziamenti sono rivolti a mia moglie, Patrizia, per la condivisione di questa scelta di vita votata alla difesa e alla tutela degli animali. La scelta di non mangiarli più, di sterilizzare e accudire i randagi, di combattere per loro comporta costi importanti in termini di preoccupazioni, di denaro e, talvolta, anche di socialità. I ricavi, però, sono incredibilmente maggiori: la nostra empatia nei confronti degli animali è abbondantemente ricambiata e ci arricchisce ad ogni manifestazione di affetto che riceviamo da questi fratellini; il sapere di aver alleviato loro qualche piccola sofferenza non ci fa avvertire il peso di quel po’ che abbiamo potuto fare; ogni battaglia condotta per gli animali ci fa credere che abbiamo fatto qualcosa per l’umanità, sì, perché il riconoscimento della loro dignità e del loro diritto alla vita è una questione di civiltà e questo vuole essere il nostro contributo materiale, culturale e spirituale alla società (“Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” – art. 4 co. 2 della Costituzione).
Ringrazio dal profondo del cuore Giovanni Malara per aver seguito passo passo durante la redazione di questo lavoro, leggendo le varie bozze che a più riprese gli ho sottoposto, offrendomi preziosi consigli e una grande disponibilità. A lui è dedicato quest’elaborato, quale segno di riconoscenza per il suo più che trentennale impegno alla lotta al bracconaggio. Un attivista che ha operato in situazioni complicate, in luoghi difficili, in tempi in cui l’interesse dell’opinione pubblica verso la tutela della fauna selvatica era inesistente, mentre le Istituzioni rimanevano sorde. Un pioniere, quindi, che si è mosso in ambienti culturali problematici, ma sempre con la stessa determinazione. Un temerario che non si è arreso neanche quando non aveva seguito o veniva isolato. Un impegno costante, lungo decenni, che lo hanno portato ad ottenere brillanti risultati nella “sua” lotta al bracconaggio. Nessuna medaglia per lui, solo la soddisfazione di aver protetto, oltre le sue possibilità, quegli animali che ama vedere volare o correre liberi per i cieli o nei boschi.
Ringrazio tutte le associazioni animaliste e ambientaliste, gli attivisti, i volontari che con il loro operato, ogni giorno con tanti sacrifici e passione si spendono per la liberazione degli animali da quel concetto di inferiorità rispetto all’uomo, liberazione dalla schiavitù cui li rileghiamo (penso agli allevamenti intensivi, agli uccelli in gabbia, ai pesci negli acquari, ai delfini acrobati), liberazione dall’essere considerati oggetti, mentre sono sensienti e nobili, tutti!
Ringrazio gli organizzatori del corso TAM Ciro Teodonno e Simone Merola per la grande opportunità offertami, i docenti per le interessantissime lezioni e i colleghi del percorso per aver arricchito quel bel viaggio di studio di tanto entusiasmo, competenza e interventi di alto profilo.
[1] Andreotti A. e Borghesi F,, Il piombo nelle munizioni da caccia: problematiche e possibili soluzioni, rapporto ISPRA 158/2012.
[2] Saturnismo: avvelenamento da piombo. Il piombo può essere assorbito per inalazione, contatto con la pelle o ingestione e può provocare effetti su diversi apparati (nervoso, respiratorio, escretore, digerente, circolatorio, endocrino).
[3] Zone umide: superfici di paludi, pantani e torbiere o distese d’acqua naturali o artificiali, permanenti o temporanee, in cui l’acqua è stagnante o corrente, dolce, salmastra o salata, comprese le distese di acqua marina la cui profondità non supera i sei metri durante la bassa marea (definizione contenuta il regolamento (CE) n. 1907/2006, come modificato dal Regolamento (UE) 2021/57 della Commissione del 25.01.2021).
[4] Cfr. paragrafo 11 dell’allegato al regolamento (UE) 2021/57 della Commissione del 25.01.2021
[5] fonte: Rapporto ISPRA 158/2012
[6] Regione Umbria, Studio per la valutazione di incidenza ambientale – Piano faunistico venatorio regionale, luglio 2019
[7] Disturbo venatorio: “Con questo termine generico si indica una serie alquanto ampia di attività le quali possono avere effetti estremamente negativi anche senza essere direttamente rivolti verso una specie o un habitat. L’azione di sparo, la presenza più o meno costante o anche la frequentazione occasionale possono, a seconda delle situazioni ambientali (estensione dell’area, copertura vegetale, ecc.) e delle peculiarità eco-etologiche delle diverse specie, causare l’allontanamento degli animali influendo alla lunga sul mantenimento di uno status fisiologico favorevole. Il mantenimento di uno stato di allarme, l’impedimento delle regolari attività di alimentazione e riposo, quando non anche le possibilità di nidificazione, possono indurre uno stato di stress che abbassa lo stato di salute degli uccelli. Senza entrare troppo nel dettaglio, si può quindi riassumere che il disturbo dovuto all’attività venatoria può avere effetti su: il comportamento (incremento distanza di fuga, variazioni ritmi attività); la distribuzione su scala meramente locale e di ambito territoriale omogeneo (per es. una singola valle o un intero comprensorio); il turn-over degli individui presenti in una data area che possono essere soggetti a ricambio molto più frequente di quanto avverrebbe in assenza di disturbo” – cfr. Regione Umbria, Studio per la valutazione di incidenza ambientale – Piano faunistico venatorio regionale, luglio 2019
[8] Tettamanti M., Dalla caccia alla scienza – Attività venatoria, danni all’agricoltura e gestione degli ecosistemi, rivista online “Caccia il cacciatore”, cfr. https://www.cacciailcacciatore.org/download/ dossier_ecosistemi.pdf
[9] Callea N., Pericolo pubblico: i costi umani e ambientali della caccia, cfr. https://www.nuoveverrine.it/pericolo-pubblico-i-costi-umani-e-ambientali-della-caccia/
[10] Tettamanti M., Valutazione di impatto ambientale di un anno di caccia, rivista online “Caccia il cacciatore”, Roma, 2008, cfr. https://www.cacciailcacciatore.org/download/dossier_impatto_bossoli_ sintetico.pdf
[11] Rivista online “Caccia il cacciatore”, L’orribile sorte degli uccelli-richiamo, cfr. www.cacciailcacciatore.org/info/approfondimento.html
[12] Manzoni A., Le conseguenze della caccia, L’Indro – L’approfondimento quotidiano indipendente, 2019, cfr. https://lindro.it/cacciatori-quelli-che-sparerebbero-pure-alla-colomba-dello-spirito-santo-sessualmente -impotenti/
[13] Callea N., Pericolo pubblico: i costi umani e ambientali della caccia, cfr. https://www.nuoveverrine.it/pericolo-pubblico-i-costi-umani-e-ambientali-della-caccia/
[14] ibidem
[15] ibidem
[16] ibidem
[17] Campanaro C. (Responsabile Ufficio Legale LAV) e Vitturi M. (Responsabile LAV Area Animali Selvatici), Caccia alla volpe in tana e illeciti correlati, “#Natura” – Rivista di ambiente e territorio dell’Arma dei Carabinieri, 2015, cfr. http://www.carabinieri.it/media—comunicazione/natura/la-rivista/home/tematiche/ ambiente/caccia-alla-volpe-in-tana-ed-illeciti-correlati
[18] ibidem
[19] Campanaro C. (Responsabile Ufficio Legale LAV) e Vitturi M. (Responsabile LAV Area Animali Selvatici), Caccia alla volpe in tana e illeciti correlati, “#Natura” – Rivista di ambiente e territorio dell’Arma dei Carabinieri, 2015, cfr. http://www.carabinieri.it/media—comunicazione/natura/la-rivista/home/tematiche/ ambiente/caccia-alla-volpe-in-tana-ed-illeciti-correlati
[20] Campanaro C. (Responsabile Ufficio Legale LAV) e Vitturi M. (Responsabile LAV Area Animali Selvatici), Caccia alla volpe in tana e illeciti correlati, “#Natura” – Rivista di ambiente e territorio dell’Arma dei Carabinieri, 2015, cfr. http://www.carabinieri.it/media—comunicazione/natura/la-rivista/home/tematiche/ ambiente/caccia-alla-volpe-in-tana-ed-illeciti-correlati
[21] Campanaro C. (Responsabile Ufficio Legale LAV) e Vitturi M. (Responsabile LAV Area Animali Selvatici), Caccia alla volpe in tana e illeciti correlati, “#Natura” – Rivista di ambiente e territorio dell’Arma dei Carabinieri, 2015, cfr. http://www.carabinieri.it/media—comunicazione/natura/la-rivista/home/tematiche/ ambiente/caccia-alla-volpe-in-tana-ed-illeciti-correlati
[22] Silveri R., Pitigliano-GR-Cacciatore condannato per crudeltà su piccolo cinghiale, cfr. https://www.abolizionecaccia.it/ blog/2021/06/pitigliano-gr-cacciatore-condannato-per-crudelta-su-piccolo-di-cinghiale/
[23] ibidem
[24] Tettamanti M., Dalla caccia alla scienza – Attività venatoria, danni all’agricoltura e gestione degli ecosistemi, rivista online “Caccia il cacciatore”, cfr. https://www.cacciailcacciatore.org/ download/dossier_ecosistemi.pdf
[25] Rutigliano A., Calendario del cacciatore bracconiere 2013-2014, Committee Against Bird Slaughter (CABS), cfr. https://www.abolizionecaccia.it/doc/Articoli/ Analisi_dati_caccia_illegale_in_Italia_2013-14.pdf
[26] Rutigliano A., Calendario del cacciatore bracconiere 2014-2015, Committee Against Bird Slaughter (CABS), cfr. https://www.komitee.de/media/calendario_ cacciatori_bracconieri_2014-2015.pdf
[27] Rutigliano A., Calendario del cacciatore bracconiere 2015-2016, Committee Against Bird Slaughter (CABS), cfr. https://www.abolizionecaccia.it/doc/Articoli/ Analisi_dati_caccia_illegale_in_Italia_2015-2016.pdf
[28] Rutigliano A., Calendario del cacciatore bracconiere 2013-2014, Committee Against Bird Slaughter (CABS), cfr. https://www.abolizionecaccia.it/doc/Articoli/ Analisi_dati_caccia_illegale_in_Italia_2013-14.pdf
[29] “Rutigliano A., Calendario del cacciatore bracconiere 2015-2016, Committee Against Bird Slaughter (CABS), cfr. https://www.abolizionecaccia.it/doc/Articoli/ Analisi_dati_caccia_illegale_in_Italia_2015-2016.pdf
[30] Committee Against Bird Slaughter (CABS), Calendario del cacciatore bracconiere 2019-2020, cfr. https://www.komitee.de/media/analisi_caccia_illegale_in_ italia_2019-2020.pdf
[31] Committee Against Bird Slaughter (CABS), Calendario del cacciatore bracconiere 2020-2021, cfr. https://www.komitee.de/media/analisi_dai_caccia_illegale_ 2020-2021.pdf
[32] Rutigliano A., Calendario del cacciatore bracconiere 2015-2016, Committee Against Bird Slaughter (CABS), cfr. https://www.abolizionecaccia.it/doc/Articoli/ Analisi_dati_caccia_illegale_in_Italia_2015-2016.pdf
[33] Candito A., Reggio Calabria, i carabinieri sequestrano 235 ghiri congelati e pronti al ‘consumo’: è il cibo delle ‘mangiate’ di ‘Ndrangheta, pubblicato sul quotidiano “La Repubblica” – https://www.repubblica.it/cronaca/2021/10/16/news/reggio_calabria_i_carabinieri_sequestrano_500_ghiri_congelati_e_pronti_al_consumo_e_il_cibo_delle_mangiate_di_ndrangh-322444304/
[34] Caccia A., La caccia: rituale per tradizione o attività obsoletà?, 2018, cfr. https://sociologicamente.it/ la-caccia-rituale-per-tradizione-o-attivita-obsoleta/
[35] Caccia il cacciatore, Se la caccia fosse un lavoro, cfr. www.cacciailcacciatore.org/info/lavoro.html
[36] Associazione Vittime della caccia, 24 morti e 66 feriti: la stagione venatoria 2021/2022 si chiude con 90 vittime, https://www.vittimedellacaccia.org/c-s-avc-90-vittime-umane-chiude-la-stagione-venatoria-2021-2022/ – Copyright©2007-2022
[37] Regione Umbria, Studio per la valutazione di incidenza ambientale – Piano faunistico venatorio regionale, luglio 2019
[38] Caccia il cacciatore, Istruzioni per la richiesta al Sindaco di un’ordinanza che vieti la caccia in una determinata zona, cfr. https://www.cacciailcacciatore.org/ download/dossier_autodifesa.pdf
[39] Caccia il cacciatore, Analisi del rapporto tra attività venatoria italiana e potenziali danni al turismo, 2004, cfr. https://www.cacciailcacciatore.org/download/dossier_turismo.pdf
[40] Genovesi P., Limitazioni all’attività venatoria a causa della siccità e degli incendi che hanno colpito il Paese, 2017, cfr. https://www.isprambiente.gov.it/it/archivio/notizie-e-novita-normative/notizie-ispra/2017/08/limitazioni-all2019attivita-venatoria-a-causa-della-siccita-e-degli-incendi-che-hanno-colpito-il-paese
[41] Regione Umbria, Studio per la valutazione di incidenza ambientale – Piano faunistico venatorio regionale 2019-2023, luglio 2019, cfr. https://leggi.alumbria.it/pdf/2019/N212235.PDF
[42] Regione Umbria, Studio per la valutazione di incidenza ambientale – Piano faunistico venatorio regionale 2019-2023, luglio 2019, cfr. https://leggi.alumbria.it/pdf/2019/N212235.PDF
[43] Regione Umbria, Studio per la valutazione di incidenza ambientale – Piano faunistico venatorio regionale 2019-2023, luglio 2019, cfr. https://leggi.alumbria.it/pdf/2019/N212235.PDF
[44] Regione Umbria, Studio per la valutazione di incidenza ambientale – Piano faunistico venatorio regionale 2019-2023, luglio 2019, cfr. https://leggi.alumbria.it/pdf/2019/N212235.PDF
[45] Tettamanti M., Dalla caccia alla scienza – Attività venatoria, danni all’agricoltura e gestione degli ecosistemi, rivista online “Caccia il cacciatore”, cfr. https://www.cacciailcacciatore.org/ download/dossier_ecosistemi.pdf
[46] Tettamanti M., Dalla caccia alla scienza – Attività venatoria, danni all’agricoltura e gestione degli ecosistemi, rivista online “Caccia il cacciatore”, cfr. https://www.cacciailcacciatore.org/ download/dossier_ecosistemi.pdf
[47] Obber F., Principali patologie degli ungulati e monitoraggio dello stato sanitario delle popolazioni selvatiche, cfr. https://www.provincia.vicenza.it/ente/la-struttura-della-provincia/servizi/caccia/corsi-di-specializzazione-venatoria/corso-cacciatore-formato-principali-patologie-degli-ungulati-e-monitoraggio-dello-stato-sanitario-delle-popolazioni-selvatiche
[48] Tettamanti M., Dalla caccia alla scienza – Attività venatoria, danni all’agricoltura e gestione degli ecosistemi, rivista online “Caccia il cacciatore”, cfr. https://www.cacciailcacciatore.org/ download/dossier_ecosistemi.pdf
[49] Benedetti C., La Nutria nell’elenco delle specie nocive: chiarimenti dei Ministeri della salute e delle politiche agricole, alimentari e forestali, 2014, cfr. https://veterinariaalimenti.sanita.marche.it/ Articoli/category/animali-selvatici/6904
[50] Tettamanti M., Dalla caccia alla scienza – Attività venatoria, danni all’agricoltura e gestione degli ecosistemi, rivista online “Caccia il cacciatore”, cfr. https://www.cacciailcacciatore.org/ download/dossier_ecosistemi.pdf
[51] Foraggiamento dissuasivo: “Con foraggiamento s’intende l’attività di nutrire o procurare del cibo, in modo del tutto innaturale, agli animali, a prescindere che sia la tipologia di alimento adatta agli stessi; vi sono due tipologie di foraggiamento: quello attivo, consistente nel deposito di fieno, erba medica, ortaggi ed altri alimenti, e quello passivo, operato attraverso il deposito di compostaggi aperti negli orti, immondizia per strada o rifiuti organici di facile accesso”, cfr. https://www.ali.ong/rivista/diritto/il-reato-di-foraggiamento-degli-animali-selvatici/
[52] Tettamanti M., Dalla caccia alla scienza – Attività venatoria, danni all’agricoltura e gestione degli ecosistemi, rivista online “Caccia il cacciatore”, cfr. https://www.cacciailcacciatore.org/download/ dossier_ecosistemi.pdf
[53] Vitturi M., Vaccino per inibire la fertilità dei cinghiali in Legge di Bilancio 2022: basta ritardi, Min. Speranza intervenga!, 2022, https://www.lav.it/news/vaccino-fertilita-cinghiali
[54] Costa S., Cinghiali, 2022, post pubblicato sul socialnetwork Facebook, cfr. https://www.facebook.com/100044325074996/posts/ pfbid02irNAPEkH42vDiYhf83fBErobLgSdi7n1tozAhEsLP2T92z1pYUkkKY8CJjXMzVarl/
[55] Regione Umbria, Studio per la valutazione di incidenza ambientale – Piano faunistico venatorio regionale 2019-2023, luglio 2019, cfr. https://leggi.alumbria.it/pdf/2019/N212235.PDF
[56] Ibidem
[57] Regione Umbria, Studio per la valutazione di incidenza ambientale – Piano faunistico venatorio regionale 2019-2023, luglio 2019, cfr. https://leggi.alumbria.it/pdf/2019/N212235.PDF
[58] Ibidem.
[59] Riga F., Sostenibilità del prelievo venatorio, da “ILVAE.it – Rivista tecnico-scientifica Ambientale dell’Arma del Carabinieri – ISSN 2532-7828
[60] Ibidem
[61] “Se la caccia fosse un’attività basata su criteri razionali, la scelta delle specie cacciabili, la delimitazione dei periodi di caccia e la determinazione del numero di animali abbattibili dovrebbe essere basata su dati scientifici riguardanti le popolazioni di animali selvatici: permettere la caccia senza disporre di stime precise sul numero e le specie di animali presenti in una zona e senza stilare un piano preciso del prelievo venatorio è un’operazione senza fondamento scientifico”, cfr. Tettamanti M., Dalla caccia alla scienza – Attività venatoria, danni all’agricoltura e gestione degli ecosistemi, rivista online “Caccia il cacciatore” – https://www.cacciailcacciatore.org/download/dossier_ecosistemi.pdf
[62] Gustin M., L’avifauna cacciabile in cattivo stato di conservazione dopo l’aggiornamento di Birds in Europe 3, 2019, cfr. http://www.lipu.it/pdf/03_Avifauna_ cacciabile_bassa.pdf
[63] Nuovo Bidecalogo del CAI – Punto 6 Politica Venatoria
[64] “Bandiere sulle montagne non ne porto: sulle cime io non lascio mai niente, se non, per brevissimo tempo, le mie orme che il vento ben presto cancella” (Reinhold Messner)
[65] Gogna A., Analisi del Nuovo Bidecalogo del CAI, cfr. https://www.caiancona.org/sites/default/files/ pdf/AGB.pdf
[66] Manzoni A., Le conseguenze della caccia, L’Indro – L’approfondimento quotidiano indipendente, 2019, cfr. https://lindro.it/cacciatori-quelli-che-sparerebbero-pure-alla-colomba-dello-spirito-santo-sessualmente -impotenti/
[67] Rutigliano A., da Calendario del cacciatore bracconiere 2015-2016, Committee Against Bird Slaughter (CABS), cfr. https://www.abolizionecaccia.it/doc/Articoli/ Analisi_dati_caccia_illegale_ in_Italia_2015-2016.pdf
[68] https://www.researchgate.net/publication/360944094_GLI_ILLECITI_AI_DANNI_DELLA_FAUNA_ SELVATICA/link/629cf15955273755ebd5198c/download