Andra’ Tutto Bene ?

ANDRA’ TUTTO BENE ?

Articolo tratto da Alpidoc n. 103, 1/2020

 

Alpidoc è la rivista dell’associazione Le Alpi del Sole, che riunisce le 14 sezioni CAI della provincia di Cuneo più quelle di Cavour e Savona.  www.alpidoc.it

Uomo e montagna, un rapporto antico, spesso conflittuale, oggi più che mai alle prese con nuove, sempre più difficili, sfide.

Tra le tante, solo pochi mesi fa l’emergenza climatica sembrava quella più urgente, dopo di che è successo quello che è successo.
E domani? Ancora una volta il futuro delle terre alte è una pagina piena di punti interrogativi

Testo di Ivan Borroni, Operatore Naturalistico Culturale Nazionale CAI, membro del Consiglio direttivo regionale del CAI Piemonte.

Fotografie di  Enrica Raviola

 

Le Alpi sono sicuramente la catena montuosa più antropizzata del pianeta, una sorta di laboratorio nel quale interazioni complesse e per nulla lineari si sono esplicate tra uomo e natura lungo un tortuoso percorso di millenni.

L’uomo del Paleolitico frequentava queste montagne già sul finire dell’ultima grande glaciazione pleistocenica, quella di Würm, circa 12-13.000 anni fa, ricercando nelle terre alte ambienti meno insalubri di quelli delle pianure, impaludate da imponenti fenomeni di disgelo provocati dal progressivo rialzo termico postglaciale.

I cacciatori-raccoglitori sapevano accendere il fuoco, scheggiare selce e quarzite, ricavare strumenti dalle ossa, conciare pelli, lavorare tendini per ottenere funi, costruire archi e frecce, zagaglie, propulsori, creare colori da pigmenti naturali per realizzare pitture rupestri di significato simbolico; tuttavia la pressione che essi esercitavano sull’habitat era quasi irrilevante, dato il loro stile di vita e la loro limitata consistenza numerica.

Le attività umane cominciarono a incidere sulle caratteristiche dell’ambiente naturale soltanto a partire dalla cosiddetta “rivoluzione neolitica”, iniziata nel Medio Oriente e poi diffusasi altrove, anche nei territori alpini (5-6000 a.C.). Il carattere distintivo del Neolitico, quello che determina pure il nome del periodo, è la lavorazione della pietra levigata, ma due altre acquisizioni di quell’epoca rivestirono un carattere ancor più rivoluzionario: l’agricoltura (coltivazione di cereali quali piccolo farro, miglio e spelta) e l’allevamento del bestiame (pecore e capre); contestualmente gli insediamenti umani diventarono stabili.

Ötzi, l’uomo del Similaun, il cui corpo mummificato fu trovato sulle Alpi Venoste nel 1991, visse intorno al 3200 a.C., quando le popolazioni alpine già traevano sostentamento prevalentemente da agricoltura e allevamento.

In seguito ci fu l’avvento della metallurgia – ovvero la tecnica di fondere il metallo nativo (rame per primo) e poi di formare leghe –, che determinò l’inizio di una nuova fase della vicenda umana. Si diffusero i disboscamenti per ottenere legname, dare spazio ai pascoli e alle terre da dissodare per le colture; si tracciarono vie di comunicazione; si alzarono muri a secco e si scavarono canali di drenaggio per consolidare e stabilizzare i pendii; si aprirono cave per l’estrazione di pietre e minerali. In una parola, l’uomo cominciò a imprimere pesantemente sull’ambiente naturale la sua “impronta ecologica”.

Si parla di Antropocene (età dominata dall’uomo) per definire l’era geologica attuale. Tale termine fu introdotto negli anni Ottanta del Novecento dal biologo Eugene Stormer e la sua fortuna fu sancita nel 2000 dal premio Nobel per la chimica Paul Crutzen con il libro Benvenuti nell’Antropocene, il cui sottotitolo recita L’uomo ha cambiato il clima, la Terra entra in una nuova era. Oggi sappiamo che le attività antropiche sono diventate il motore principale di molte dinamiche ambientali, ma già nel 1873 il geologo Antonio Stoppani aveva intuito e scritto che umana era la causa emergente dei cambiamenti planetari, proponendo d’introdurre il termine “era antropozoica”.

 

foto 6 - CAI Tutela Ambiente Montano

 

 

 

Dopo la fine della grandi glaciazioni l’insediamento umano sulle Alpi fu favorito in maniera importante dal clima relativamente mite. Il periodo più caldo, definito “optimum climatico medievale”, si verificò dall’VIII al XIV secolo, dopo un raffreddamento nel V e VI secolo. Si trattò di un cambiamento di grande  portata – con importanti conseguenze economiche –, che si svolse in più fasi e con alterne vicende da zona a zona. Fu comunque caratterizzato da un aumento medio delle temperature, che giunsero a livelli decisamente più elevati di quelli odierni. Per ricostruirne l’andamento sono stati studiati gli anelli di accrescimento degli alberi, le carote di ghiaccio, i coralli e i sedimenti di vario tipo.

Il rialzo termico medievale determinò un forte aumento della popolazione europea, ma queste dinamiche demografiche espansive subirono una grande battuta d’arresto a causa della terribile pandemia di peste nera che, provenendo dall’Asia, flagellò il continente tra il 1347 e il 1352, uccidendone circa un terzo della popolazione. È probabile però che la fuga dalla peste abbia contributo ai trasferimenti di genti dalle pianure verso le zone montane, meno antropizzate.

L’instaurarsi di condizioni climatiche favorevoli sulle Alpi permise la diffusione di colture mediterranee, come quelle della vite e del grano, fino a quote nettamente superiori ai 1000 metri. L’estensione delle foreste interessò quote più elevate delle attuali. L’allevamento bovino andò affermandosi. Notevole fu l’arretramento del fronte dei ghiacciai e l’innalzamento della quota delle precipitazioni nevose, così che furono avvantaggiate le comunicazioni intervallive. L’attuale Colle del Teodulo (3316 m), tra Valtournenche e Mattertal (Vallese), in estate non era innevato, come testimonia il rinvenimento di tratti di lastricatura del sentiero di accesso.

In questa situazione climatica furono favoriti i trasferimenti di genti da nord a sud delle Alpi. Il più noto è quello delle popolazioni Walser che, dalla fine del XII secolo alla metà del XIV, colonizzarono le alte vallate attorno al Monte Rosa, provenendo dall’attuale cantone svizzero del Vallese (Walliser = originario del Vallese > Walser).

Con il XIV secolo avviene una graduale inversione del precedente, favorevole andamento climatico. Inizia quella che viene denominata Piccola Era Glaciale, che arriverà al suo culmine tra XVIII e XIX secolo, interessando specialmente il continente europeo. Si abbassano notevolmente le temperature, si incrementano le precipitazioni nevose, ritornano ad avanzare i ghiacciai. Interi villaggi vengono abbandonati. L’estrema rigidità del clima è ben rappresentata da diverse opere pittoriche del XVII e XVIII secolo. Le popolazioni alpine si trovano a vivere in questo periodo nelle condizioni ambientali più severe della loro storia, l’incremento demografico si arresta. La fase fredda culmina intorno al 1850, quando le temperature ricominciano ad aumentare. Contestualmente si assiste a una importante ripresa della natalità, favorita anche dalla diffusione su larga scala di nuove colture in grado di fornire un supporto alimentare essenziale. In particolare è fondamentale l’avvento della patata. Questa solanacea era stata importata dall’America già da oltre un paio di secoli, ma aveva riscosso ben poco successo perché ritenuta tossica (in effetti l’alcaloide solanina contenuta nelle patate ancora verdi provoca disturbi enterici). Un documento del 1803 a firma del prefetto di Cuneo sollecita le autorità locali a diffondere la coltura della patata, ritenuta giustamente in grado di costituire una importante risorsa per le popolazioni montane, afflitte da endemico deficit alimentare.

Dunque nella seconda metà del XIX secolo sull’arco alpino si assiste a una nuova esplosione demografica; l’eccesso di popolazione rispetto alle risorse disponibili comporta miseria e deficit alimentare cronico, con un impatto pesantissimo sugli habitat montani a causa della deforestazione esasperata, con riduzione ai minimi termini, quando non totale estinzione, della grande fauna (erbivori e predatori). Nell’ultima parte dell’Ottocento fino alla prima guerra mondiale si attivano imponenti processi migratori dall’Italia verso le Americhe, che coinvolgono anche la popolazione alpina.

Tuttavia non è corretto parlare di società alpina al singolare, come se si trattasse di un’entità omogenea; questo termine va declinato al plurale in quanto esistono sostanziali differenze tra le varie realtà, in particolare tra Alpi Occidentali e Orientali. La tradizionale economia montana basata sulle attività agro-silvo-pastorali vive infatti una situazione di più grave criticità nelle prime rispetto alle seconde. Le Alpi Occidentali presentano, rispetto a quelle Orientali, maggiori asperità e inferiore disponibilità di aree coltivabili e pascolabili nonché di boschi da legname, con conseguente minore produttività agricola e zootecnica. Ciò che però costituisce la più rilevante differenza tra le comunità di derivazione culturale latina e germanica è la storica caratterizzazione della proprietà fondiaria, derivante dai due opposti tipi di diritto ereditario, quello latino, basato sulla spartizione paritaria tra gli eredi, e quello germanico, basato sulll’istituto del maso chiuso. Introdotto dai Bavari sul finire del VI secolo, questo prevede che la proprietà, alla morte del proprietario, non venga suddivisa fra gli eredi, ma passi a una sola persona, di solito il primogenito maschio. Gli altri coeredi hanno diritto solo a un indennizzo; quelli che scelgono di restare al maso diventano servi agricoli, trattati come persone di famiglia ma non in grado di crearne una propria.

 

 

foto 5 - CAI Tutela Ambiente Montano

 

 

L’istituto del maso chiuso, di durezza e pragmatismo prettamente germanici, ha presentato indiscutibili e notevolissimi vantaggi: ha impedito la frammentazione delle aziende e ha favorito la continuità della proprietà famigliare, incentivando così anche la cura del territorio.

Oggi esistono circa 12.300 aziende riconosciute come masi chiusi. Il problema dell’abbandono delle aree marginali a minore redditività non ha tuttavia risparmiato del tutto nemmeno l’Alto Adige.

La Grande Guerra provoca la falcidie di un’intera generazione di giovani montanari, cui segue inevitabilmente una stagnazione demografica. Nel dopoguerra non si assiste ancora a veri e propri fenomeni di totale abbandono, anche perché l’affermarsi della dittatura fascista pone coercitivamente un freno all’emigrazione. Tra le due guerre mondiali nei fondovalle alpini si insediano anche impianti industriali (in prevalenza, ma non solo, dei settori siderurgico e tessile), attratti dall’abbondanza della risorsa acqua necessaria alla produzione di energia e ai processi di lavorazione, i quali hanno pesanti conseguenze ambientali.

Questi poli industriali di fondovalle, che avevano assorbito mano d’opera locale contribuendo allo spopolamento delle zone agricole montane circostanti, sono entrati in profonda crisi negli anni Ottanta del Novecento, moltissimi hanno chiuso i battenti lasciando sul territorio scheletri fatiscenti di capannoni in abbandono e notevoli criticità sociali e ambientali.

Con il secondo conflitto mondiale le giovani leve alpine subiscono un ulteriore, terribile colpo.

La falcidie in guerra di due generazioni di giovani montanari nell’arco di poco più di venti anni è stata senz’altro determinante nell’accelerare l’abbandono della montagna e l’inurbamento verificatisi a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, con punte massime negli anni Sessanta-Settanta. Tuttavia le ragioni più profonde di tale fenomeno epocale sono da ricercarsi nella vera e propria rivoluzione determinata dall’industrializzazione del paese. Fino alla prima metà del secolo scorso l’attività zooagricola costituiva la risorsa fondamentale delle popolazioni di montagna, anche se il sistema spesso mostrava la sua inadeguatezza, come attestano le ripetute ondate migratorie. Erano contadini oltre il 70% dei valligiani. A partire dagli anni Cinquanta il declino dell’agricoltura e del settore primario imbocca un percorso inarrestabile a favore dei settori secondario e terziario, che attirano verso la città le nuove generazioni. Inoltre l’economia agricola delle pianure, incomparabilmente più efficiente e redditizia, mette in ginocchio quella montana; lo squilibrio fra lavoro e reddito si fa insostenibile.

Il progressivo abbandono degli insediamenti montani ha innescato, in tempi relativamente brevi, un meccanismo di riforestazione spontanea tuttora in atto: si pensi che tra il 1985 e il 2015 la superficie boscata del Piemonte è aumentata del 20%, con un indice di boscosità in montagna del 57%. All’abbandono dell’uomo e alla riforestazione spontanea ha fatto seguito il ritorno della grande fauna di ungulati (cinghiali, caprioli, cervi) e, a partire dalla metà degli anni Novanta, è tornato il lupo sulle montagne del Piemonte Sud-occidentale.

In una prima fase postbellica l’industria idroelettrica dei grandi invasi sembrava poter rappresentare l’unica prospettiva di futuro per la montagna. Poi si è rivelata come uno sfruttamento estremo della risorsa probabilmente più preziosa della montagna, l’acqua, con ritorno economico relativamente modesto per il territorio. Infatti la progressiva automazione degli impianti ha ridotto ai minimi termini l’iniziale disponibilità di posti di lavoro per i valligiani. Per contro è stato salato il conto ambientale da pagare.

Poi, a cavallo del nuovo millennio, l’industria idroelettrica, questa volta nella versione più ridotta ma molto più capillare del “piccolo idroelettrico”, si è ripresentata nelle vallate alpine con rinnovata aggressività, sempre con l’illusoria promessa di costituire la soluzione dei problemi per i comuni montani. Buona parte dei torrenti alpini sono stati ridotti quasi a rigagnoli, malgrado l’imposizione da parte dalla pubblica amministrazione dell’obbligo di rilascio dalle opere di captazione del cosiddetto “deflusso minimo vitale”, spesso più teorico che reale.

Non tutte le zone montane sono però andate incontro all’abbandono: a partire dagli anni Sessanta nei siti vocati si è affermata l’economia ludico-turistica dello sci di pista, con il suo devastante corollario di scempi edilizi e impatti ambientali vari. Una vera ubriacatura. I buoni innevamenti di quel periodo hanno dato un frenetico impulso alla proliferazione di stazioni sciistiche, anche piccole e piccolissime. La montagna è stata trasformata in una sorta di luna park per le vacanze del consumismo trionfante: le conseguenze non molti anni dopo si sono manifestate in tutta la loro negatività.

Dagli anni 2000, in seguito al diminuire delle precipitazioni nevose e a una perdurante inadeguatezza delle infrastrutture, concomitanti con una tendenza economica di decrescita, è cominciato un riflusso che sembra irreversibile. A parte alcune stazioni più importanti, quelle non ancora chiuse dopo anni di stentata sopravvivenza versano in condizioni permanenti di crisi.

Con Enrico Camanni possiamo affermare che il tema dei temi del secondo Novecento alpino «è la propagazione della nuova cultura consumistica, smaniosa e imprevidente, in grado di erodere in pochi decenni il tessuto della civiltà preesistente. Quel che non era riuscito in mille anni alle valanghe, alle frane, agli inverni, alle alluvioni, alle epidemie, agli eserciti, ai tiranni e agli invasori, riesce nell’ultimo minuto dell’orologio alpino a un modello così forte e persuasivo da stravolgere il territorio e soffocare le voci dissenzienti. Il crogiolo di popoli ed esperienze che, immigrazione dopo immigrazione, si è sedimentato nelle Alpi apportando nuove tecniche e nuove idee, e costruendo una singolare identità della diversità, viene sradicato da un invasore che dispone di un potere subdolo e micidiale: il potere di omologare anche le montagne».

 

 

foto 7 - CAI Tutela Ambiente Montano

 

 

Negli anni recenti, a fronte del conclamato fallimento degli sterili modelli di sviluppo impostati sulla logica consumistica e con la perdurante crisi occupazionale soprattutto giovanile, si è andata formando dal basso una spinta verso la ricerca di progetti esistenziali e imprenditoriali alternativi nelle idee e innovativi nelle tecniche. Questo non vagheggiando un anacronistico ritorno  ai “bei tempi antichi”, che idilliaci non sono mai stati, ma puntando creativamente alla valorizzazione non predatoria delle risorse locali, dalla selvicoltura conservativa all’agricoltura specializzata, dall’allevamento di qualità alle produzioni agroalimentari di pregio e all’enogastronomia tipica, dall’artigianato al turismo “lento”, dalla promozione dei patrimoni storici e dei giacimenti culturali alla sperimentazione di nuove professioni al passo con i tempi, basate sulle specificità territoriali.

Tale nuova prospettiva si è già concretizzata in realtà non più solo pionieristiche anche a opera di “neomontanari” e di “ritornanti”. D’altro canto possono essere introdotte innovazioni solo grazie a chi della montagna fa una consapevole scelta di vita, non a chi la subisce come una condanna. Compito di una classe politico-amministrativa all’altezza sarebbe quello di disegnare linee politiche coerenti e organiche, non di accanirsi a promuovere frammentari progetti neoconsumistici (incremento dell’accesso di mezzi fuoristrada alle strade in quota, nuovi impianti sciistici, creazione di distretti destinati all’eliski, eccetera), come se le disastrose esperienze già fatte non servissero a nulla. Sotto questo aspetto abbiamo localmente esempi virtuosi di amministratori illuminati, purtroppo ancora ampiamente minoritari. Anche gli enti di gestione delle aree protette, così come associazioni quali il CAI, devono essere in prima fila (già hanno dimostrato di saperlo fare) nella promozione di una nuova e buona economia di montagna, basata sulla tutela dell’integrità ambientale, vero patrimonio delle terre alte e carta vincente su cui puntare, nonché sulla valorizzazione ecocompatibile delle molte risorse disponibili, materiali e culturali.

Tuttavia, non si può sottacere come sul futuro delle Alpi, e su quello dell’intero pianeta, gravi in prospettiva l’incognita del riscaldamento globale. Abbiamo visto come le vicende umane siano sempre state condizionate da quelle climatiche, caratterizzate dal susseguirsi di periodi freddi alternati a periodi più caldi. Queste dinamiche storiche vengono attribuite ai mutamenti ciclici dell’assetto orbitale del nostro pianeta (cicli di Milankovic´), con interferenza delle variabili rappresentate dall’attività solare e dalle eruzioni vulcaniche.

Il fenomeno del riscaldamento globale, attivatosi e incrementatosi dalla metà del XX secolo, con progressivo e incalzante aumento delle temperature medie della superficie della terrestre, è invece riconducibile a cause umane, secondo la valutazione ormai condivisa dalla quasi totalità del mondo scientifico (abnorme emissione di gas serra e conseguente effetto serra).

Il riscaldamento in atto non è uniforme, ma presenta un picco massimo nell’emisfero settentrionale, con particolare interessamento della catena alpina. Tra noi appassionati di montagna, quelli anagraficamente meno giovani sono testimoni diretti di quanto impressionante sia stato il ritiro dei ghiacciai alpini nel periodo brevissimo (geologicamente un istante) di una cinquantina di anni!

Tra il primo trattato sul clima firmato a Rio de Janeiro nel 1992 durante lo storico summit sulla Terra, dal quale è poi derivato il Protocollo di Kyoto del 1997 (teoricamente in vigore dal 2005) fino alla COP 25, svoltasi a Madrid nel dicembre 2019, le conferenze internazionali sul clima si sono succedute con risultati purtroppo inversamente proporzionali agli sforzi profusi. Gli enormi quanto miopi interessi degli stati sembrano sempre avere il sopravvento sull’interesse comune dell’umanità. Vengono in mente i manzoniani polli di Renzo, che mentre andavano incontro al loro destino non pensavano ad altro che a beccarsi tra loro.                                                           

 

 

foto 4 - CAI Tutela Ambiente Montano             

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