di Piergiorgio Iannaccaro
“La forza è nel territorio, nel dare spazio al racconto di una Calabria allo stesso tempo alta e profonda, che resiste, che non può, non deve essere dignitosamente accompagnata verso l’estinzione”. Riflessioni e idee dall’incontro Genti di Sila, un’iniziativa della Sezione Cai di Catanzaro che si è svolta al rifugio Leone Grandinetti

È calata la notte sul rifugio della Sezione di Catanzaro del Club Alpino Italiano, nel cuore del Parco Nazionale della Sila, a breve distanza dalla Riserva Biogenetica Statale del Monte Gariglione. Una notte di buio e di silenzio sulla strada dell’autunno. Rinchiuso nel mio sacco lenzuolo ripenso alla lunga estate, bruciata come un fuoco di paglia nei luoghi delle vacanze e del turismo. Vivida, veloce, quasi di corsa, esibizionista, sfrontata, nevrotica. Lontana dalla sobrietà delle valli e delle foreste dell’altipiano.
E ripenso a un sabato di giugno, quando decine di persone si sono incontrate tra i muri di pietra di quel rifugio. L’incontro aveva un nome che era programma, Genti di Sila. In primis chi in Sila ci vive, lavora, produce. Ma anche chi frequenta la Sila, ne apprezza la grandezza, ne ha rispetto, la percorre, cerca la relazione con i suoi abitanti, cercando di superare la distanza evocata dai versi di Sila di Franco Costabile: “…Se poi, quella gente ci vive d’inverno col pane di segala e i lupi, a te, che importa, te ne stai nel calduccio, in città, raccontando agli amici il verde odoroso dei pini”. In quei versi c’era la consapevolezza di come sia impegnativo vivere nell’ambiente delle terre alte, non del tutto amico, marginalizzato, lontano dai servizi essenziali.
Con la fatica di cui parla Mario Calabresi nella sua ultima opera, Alzarsi all’alba, con la dedizione della “molta gente che continua a viverla la fatica. Ad alzarsi all’alba… a prendersi cura di un pezzo di mondo senza sosta…”.
Appena qualche giorno prima di quel sabato di giugno mi ero imbattuto nella versione aggiornata a marzo 2025 del Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne (Psnai). Quelle aree dove da lungo tempo esistono “…centri di piccole dimensioni… distanti da centri di offerta dei servizi essenziali dell’istruzione, della salute e della mobilità…”. Il Piano Strategico si propone interventi mirati a promuovere il benessere delle persone che vivono nelle aree interne. Ma allo stesso tempo prende atto che molte di esse sono alle prese con un declino demografico inarrestabile e hanno basse prospettive di sviluppo economico. E, prima che il testo venisse aggiornato, affermava che “…Queste aree non possono porsi alcun obiettivo di inversione di tendenza ma non possono nemmeno essere abbandonate a sé stesse. Hanno bisogno di un piano mirato che le possa assistere in un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita…”.
In altri termini luoghi destinati a scomparire, vittime di una sorta di destino irreversibile. Affetti da una malattia cronica, avanzata, dalla prognosi infausta, descritta freddamente con linguaggio burocratico. Abitati dalle persone che affollano il salone del rifugio in quel sabato di giugno, lontani dalle scuole, lontani da un medico, parte di comunità molto piccole, da cui è forte la tentazione di fuggire. In cui il termine restanza, coniato dall’antropologo Vito Teti, e inserito a pieno titolo nel Vocabolario Treccani, ha il significato di sfida esistenziale quotidiana.
Il primo a prendere la parola è un casaro, autentico restante: “Le cose vanno peggio…Nei borghi non c’è più nessuno…”. La consapevolezza del forte declino indicato dal Piano strategico, lo spopolamento. “Cerchiamo di andare avanti e di salvare la Sila, anche se viene maltrattata…”. La speranza, il legame indissolubile con la propria terra, la tenacia nel continuare a produrre latticini, che solo lì vengono così buoni.
“Mancano le strade…” gli fa eco un ristoratore, e “Sto cercando di non far partire i miei figli…” dice sommessamente un imprenditore di un piccolo paese in quota. Qualcuno invoca l’intervento della politica e degli enti locali. C’è chi punta il dito sulle iniziative improduttive di alcuni comuni, che cercano di attirare turisti con iniziative artificiose, giudicate di utilità nulla. E critica il concetto di restanza, assai in voga, nulla più che una visione romantica, che si scontra con l’assenza dei servizi essenziali. “C’è la restanza e ci sono i paesi… non è facile restare e fare i conti con una linea ferroviaria interrotta da tempo, con distanze che possono essere colmate solo se si dispone di un’automobile, con scuole lontane e un’assistenza sanitaria limitata…”. O del tutto assente, sicché è necessario confidare nella propria buona salute. “Non sarà il turismo a salvarci…”, quantomeno non solo esso, se non si comprende che la vera risorsa è il territorio. Che deve essere tutelato: “Ciò che vuole l’uomo non è ciò che vuole la natura…”, dice una guida ambientale molto attiva in Sila.
E noi cittadini, che siamo lì di fronte ai “silani”, che cosa possiamo fare? Entrare in relazione con loro, ascoltarli, affiancarli. Con le loro parole, quelle dei dialetti che ricordano migrazioni interne e processi di popolamento e insediamento. Con l’archeologia delle parole, sapientemente evocata da un poeta e scrittore della Presila catanzarese.
Gli esponenti del direttivo di un’associazione di recente costituzione, con la missione di valorizzare la Sila, evocano la necessità di indurre meccanismi virtuosi agendo da facilitatori sul territorio. Che ritorna a essere proposto come punto centrale di ogni azione. E ancora “Fare rete e guardare lontano…” suggerisce il parroco di Marcedusa. Un network sul territorio di contadini, casari, allevatori, albergatori, ristoratori, guide, depositari di saperi e del saper fare. Nulla di nuovo, nulla che non si sia già visto in tanti altrove del mondo, ma che stenta a materializzarsi in una terra che ha scarsa dimestichezza con il concetto di capitale sociale.
Due professori universitari, che hanno ascoltato e preso appunti, cercano di dare significato e profondità ai concetti espressi dai silani e da noi cittadini. “Prendere a modello il costruire comunità delle regioni alpine…partire dalle persone che fanno…unire genti e agenti, ovvero ricordi, sentimenti, idee…”, è il punto di vista del sociologo. “Necessità di maggiore visibilità, anche attraverso il fare rete…cooperare dal basso e cooperare con le istituzioni…” è il suggerimento dell’economista.
Dopo tre ore di interventi emerge un tema di fondo. La forza è nel territorio, per quanto esso sia impoverito dallo spopolamento, indebolito dalla mancanza di servizi, reso distante da una rete viaria vecchia e trascurata. La forza è nel mantenere comunità di uomini e donne che ogni giorno si rimboccano le maniche, non vogliono andare via e fanno ciò che noi cittadini non sappiamo fare ma apprezziamo. La forza è nel dare spazio al racconto di una Calabria allo stesso tempo alta e profonda, che resiste, che non può, non deve essere dignitosamente accompagnata verso l’estinzione. La forza è nell’unione delle forze.
Non mancano in Sila dissonanze e inadeguatezze, ma l’altipiano dispone di tante realtà produttive che devono fare sistema. Integrando risorse naturali, saperi e tradizioni, prodotti dell’agricoltura, della pastorizia, dell’artigianato, arte, cultura, in estrema sintesi investendo nel suo Capitale Naturale. Investendo sulla sua unicità. Che colpì James Maurice Scott, un celebre esploratore e scrittore scozzese che, decenni fa, percorse la Sila e scrisse che “la Sila è la zona meno italiana d’Italia…”.
Appunto, la Sila nel suo essere molti luoghi è una realtà unica, e questo è una potente leva su cui agire. Contro le difficoltà di una vita faticosa in lembi di mondo distanti da tutto, contro l’asettica condanna del Psnai. E può evitare modelli di sviluppo alla lunga deleteri, quelli in parte responsabili dell’assalto alle Alpi che dà il titolo a un saggio di Marco Albino Ferrari. E affiancarsi, questo sì, a realtà lontane che hanno scelto un profilo discreto ma remunerativo.
Noi cittadini, noi soci del Club Alpino Italiano, che abbiamo voluto Genti di Sila, dobbiamo diffondere la conoscenza della montagna. Conoscere per apprezzare, apprezzare per amare, come dice Teresio Valsesia. È una visione elitaria? Qual è il sentire comune dei tanti frequentatori delle montagne italiane? Una risposta viene dal Rapporto Montagne Italia 2025. E da un’intervista fatta dagli autori. Da cui emerge la prevalente percezione della montagna come luogo del “fresco”. Come luogo dalla vita differente. E la consapevolezza dei problemi peculiari della montagna. Spopolamento, abbandono, difficoltà di collegamento e di accesso ai servizi essenziali, impatto dei cambiamenti climatici. I conti, almeno in parte, tornano.
La Sila offre l’opportunità di sperimentare la coesistenza virtuosa delle necessità degli uomini con la tutela dei suoi ecosistemi. Che è poi la filosofia delle aree Mab (Man and Biosphere) Unesco, di cui l’altipiano della Sila fa parte. Filosofia ancorata solidamente al concetto che le montagne sono luogo di uomini e di donne. Che devono fare i conti anche con la crisi climatica, i cui effetti sono più evidenti sulle terre alte e sui loro ecosistemi. E devono cooperare davanti a nuovi contesti che nessuno può contrastare da solo.
I cittadini devono guardare alle montagne con equilibrio, senza cadere negli equivoci dei luoghi comuni, senza cercare in esse l’atmosfera di un centro commerciale, senza ridurla nel loro immaginario a un parco giochi. Non c’è conoscenza dei luoghi senza relazione con i loro abitanti. Senza consapevolezza ed empatia.
In quel sabato di giugno, le genti di Sila ci hanno parlato di una realtà ben viva, del loro ruolo di custodi di un’identità non solo geografica, ma umana e culturale. Ci hanno parlato di vita quotidiana che si misura con l’inverno demografico, con l’abbandono dei luoghi, con la scarsità delle risorse. Ci hanno comunicato il loro legame spirituale con la terra e la speranza di potervi rimanere. Come ci ricorda Annibale Salsa ne I paesaggi delle Alpi, i luoghi di montagna sono abitati grazie a processi individuali e collettivi che hanno creato un senso. E in definitiva è nostra responsabilità difendere quel senso, che consente agli abitanti delle terre alte di continuare a scrivere una storia ininterrotta con le loro vite. In una possibile, utile interconnessione con le aree urbane e metropolitane. Nelle prospettiva di un contributo attivo alla società e all’economia italiane.
In definitiva La montagna che vogliamo, citando il titolo di un recente saggio di Marco Albino Ferrari, che ci ricorda che “la montagna può davvero dare risposta alle grandi trasformazioni che il nostro tempo ci impone in termini di rispetto per l’ambiente e di qualità della vita”.